Alla scoperta di Sansepolcro, Arezzo e Città di Castello
Sabato 11 e domenica 12 giugno, il Circolo CUBo, insieme agli storici dell’arte Giacomo Alberto Calogero e Pierluca Nardoni, autore dell’articolo, ha organizzato un viaggio per i soci tra Toscana e Umbria, nei luoghi di Piero della Francesca e di Alberto Burri.
L’opportunità di accostare due nomi appartenenti a culture artistiche così distanti non è solo geografica, per quanto l’area pierfrancescana tra Arezzo e Monterchi sia un pezzo di Toscana legata all’Umbria dalla Valle del Tevere. La sfida più interessante, in realtà, è trovare un filo che unisca le limpide armonie di Piero alle materie ribollenti dell’Informale di Burri. Pur nelle differenze, ci sembra che i due artisti condividano l’intenzione di tradurre le confuse circostanze della natura e del mondo in un sistema ordinato.
Giacomo Calogero, ha raccontato le opere di Piero della Francesca e io quelle di Burri, dividendoci equamente gli impegni.
Giorno 1, Toscana: Piero e l’emozione dell’intelletto
La storia dell’arte è anche una storia di luoghi. Lo ricorda Calogero pochi minuti dopo la partenza del pullman dall’autostazione di Bologna, in un’alba tiepida che preannuncia una delle estati più torride che abbiamo mai vissuto. Il gruppo di soci è numeroso, siamo una trentina. C’è voglia di tornare a viaggiare e l’organizzazione prevede due giorni densi di tappe. Qualcuno già pensa che vorrebbe vedere con calma le città e i borghi e forse non ci sarà tempo per farlo. Qualcun altro, vista l’ora, ancora dorme, prima di essere svegliato dal racconto come sempre puntualissimo di Calogero, che in pochi minuti riassume a larghe maglie la carriera del ‘monarca della pittura’ Piero della Francesca. Così lo definisce l’amico Luca Pacioli, fine matematico, anch’egli nato a Borgo Sansepolcro come Piero.
Appena entrati nei Musei Civici di Sansepolcro, ritroviamo Pacioli in un quadro dell’Ottocento dipinto da Angelo Tricca: si tratta di una scena immaginaria e un po’ buffa, un Piero ormai anziano che continua a impartire regole di geometria agli allievi mentre l’amico Pacioli, anziano anche lui, prova a renderle più evidenti schematizzandole in qualche modo. Entrambi stringono gli occhi, miopi. Quando ci troviamo di fronte il celebre Polittico della Misericordia, quelle regole geometriche ci appaiono con chiarezza. L’opera, commissionata dalla locale Confraternita della Misericordia, impegnò il maestro dal 1445 per circa un quindicennio, a periodi alterni e talvolta molto dilatati. Le parole di Calogero guidano gli sguardi sulle caratteristiche dell’arte pierfrancescana: sulle figure dei santi che sembrano tradurre in pittura i volumi di Donatello, sulla cimasa, la parte sommitale del polittico, dove si trova una crocifissione straordinaria in cui il fondo dorato viene reso improvvisamente profondo da un gesto di Giovanni: braccia allargate, disperato, ma pure ‘misuratore’ di uno spazio che con Piero diventa moderno anche quando la committenza sceglie la vaghezza, ancora medievale, dello sfondo tutto d’oro. Nel comparto centrale la Madonna della Misericordia è, come dice Roberto Longhi, il segno di una ‘nuova e impassibile umanità’, ma pure di un lessico architettonico che verrà approfondito da Bramante. L’operazione senza tempo di Piero, insomma, è legare il senso geometrico delle figure, dei volumi, degli spazi, sviluppato grazie alle sue forti competenze euclidee, alla pittura tersissima e luminosa appresa dal maestro Domenico Veneziano.
L’arte di Piero della Francesca è un’arte che ci fa percepire le regole matematiche al di sotto dei fenomeni, consentendoci di partire da essi per pensare a qualcosa di eterno e immutabile:
il Cristo della Resurrezione, per esempio, è un ‘accigliato colono imbalsamato dal sole‘ (sempre parole di Longhi) ma è anche una specie di fusto di colonna, statuario, immobile, colto in una sorprendente stasi, mentre i soldati che fanno la guardia al sepolcro restano addormentati, in un torpore tra il magico e il divino. Non sorprende che, negli anni Venti del Novecento, il grande scrittore di fantascienza Aldous Huxley definisca la Resurrezione “il dipinto più bello del mondo”.
E pare che in seguito un capitano dell’esercito americano si ricordi di questo giudizio durante la seconda guerra mondiale, risparmiando a Sansepolcro di essere distrutta dalle bombe. I soci ascoltano, qualcuno prende appunti, qualcun altro prova anche a replicare graficamente gli splendidi ritmi di Piero, come facevano i suoi allievi secondo il dipinto di Tricca.
Nel pomeriggio ci trasferiamo ad Arezzo, dove i soci, in due gruppi, entrano nella Basilica di San Francesco per vedere il ciclo di affreschi delle Storie della Vera Croce.
Piero qui racconta la leggenda millenaria del legno su cui viene crocifisso Cristo e lo fa a modo suo, trasformando scene convulse di battaglia in ritmi di colori e geometrie, senza mai smarrire la verosimiglianza del naturale. È ritmica anche la disposizione delle scene lungo i muri: le vicende si rispondono da una parete all’altra, una scena di battaglia richiama una scena di battaglia, un disvelamento richiama un disvelamento e così via, procedendo per assonanze formali e sovvertendo ogni linearità cronologica. Il gruppo segue con lo sguardo tutte le corrispondenze e scopre una volta di più, se ancora ce ne fosse bisogno, l’incanto sospeso, quasi rituale, dell’arte di Piero, che Calogero spesso definisce ‘astratta‘ e geometrica. Del resto, l’artista stesso scrive in un suo trattato che l’atto del dipingere non è altro se non una ‘dimostrazione’ di corpi colorati e riportati su una superficie secondo principi prospettici. Detta così sembra quasi un’equazione matematica, ma è anche molto di più.
Intervallo: le pause e il gusto di viaggiare
Per quanto le tappe del nostro viaggio siano piuttosto scandite, l’itinerario storico-artistico non assorbe per intero le giornate. C’è tempo per assaggiare le schiacciate di Sansepolcro, per visitare il Duomo di Arezzo appena dopo un matrimonio, per mangiare alla trattoria Lea di Città di Castello. C’è Celeste, la figlia di Calogero, tre anni, maestra di vivacità e sincerità, che alla mia richiesta di alzare la mano se ci fossero punti da chiarire nelle mie spiegazioni alza la mano e dice “io, io non ho capito!”.
C’è modo di scambiarsi opinioni su tutto quello che si vede, sulle geometrie di Piero, sugli strappi e le bruciature nelle opere di Burri. C’è chi pensa ai nipoti e compra souvenir di peluche, chi pensa a sé e compra poster e cataloghi, chi fa l’una e l’altra cosa. Ci sono le piccole disavventure, come un hotel prenotato forse per errore sulla base di un’omonimia, un po’ distante dal centro di Arezzo rispetto all’omonimo, a una distanza non esagerata ma tale da diventare un argomento di conversazione a cena.
Giorno 2, Umbria: Burri e l’ordine incandescente della materia
La domenica ci svegliamo presto, ci attende un’ultima tappa nei luoghi di Piero e precisamente a Monterchi, dove troviamo la Madonna del Parto. Si tratta di un affresco staccato ed esposto in un luogo non certo suggestivo (una vecchia scuola media), ma dagli ottimi standard conservativi. Si entra scostando una tenda per assistere a una scena dipinta in cui due angeli scostano a loro volta un tendone e svelano il grande mistero della gravidanza mariana. I soci sono affascinati, si intrattengono a fare domande a Calogero o anche soltanto per guardare ancora per qualche minuto uno dei padiglioni dipinti più suggestivi della storia dell’arte. Da Monterchi a Città di Castello c’è appena una quindicina di chilometri. Arrivati nel centro storico del comune perugino non è difficile trovare Palazzo Albizzini, sede della Fondazione Burri, che conserva la collezione più esaustiva di opere di Alberto Burri. È il dono che l’artista ha voluto fare alla sua città natale e ha inaugurato nel 1981, seguito nove anni dopo dalla sede degli Ex Seccatoi del Tabacco, che ospita invece gli ultimi cicli di opere monumentali. Per un attimo mi chiedo: se Piero è rimasto tanto impresso negli occhi e nei discorsi dei soci, Burri, nato quattro secoli dopo, nel pieno di quell’arte contemporanea spesso totalmente priva di contenuti narrativi, sarà meno apprezzato? I soci sembrano sentire la mia inquietudine e si spazientiscono un po’ all’ingresso di Palazzo Albizzini, perché bisogna entrare in due momenti, come ad Arezzo. Hanno però ascoltato con attenzione la mia introduzione sulla cultura figurativa di Burri; un autodidatta, laureato in medicina, partito come soldato durante la seconda guerra mondiale e rimasto prigioniero anche oltre la fine della guerra, come talvolta capitava. L’inizio della sua carriera artistica coincide con il suo trasferimento a Roma nel 1946.
A Palazzo Albizzini le sue primissime opere non sono presenti, ma è testimoniata soprattutto la produzione dagli anni Cinquanta in avanti che appartiene quasi per intero alle poetiche dell’Informale. Si tratta di un gusto diffuso in tutta Europa (negli Stati Uniti corrisponde con buona approssimazione all’Espressionismo astratto) che si sviluppa proprio a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Le conseguenze della catastrofe bellica e di un’umanità al collasso, in effetti, hanno fatto pensare spesso all’espressività informale, che tuttavia ha un senso più ampio:
nei suoi segni brutali e nelle colate pittoriche ai limiti della riconoscibilità formale va letta la volontà di un rapporto primordiale con il mondo; anzi, ricorda Maurizio Calvesi, bisognerebbe pensare a queste opere proprio come alla traccia di un rapporto, come ai modi originari dell’uomo di presentarsi al mondo, di produrre azioni e gesti, di confrontarsi con le materie grezze del suo ambiente. Cosa c’entra un artista come Burri con il rigore cristallino di Piero della Francesca? Per la verità qualche affinità c’è. Ce ne accorgiamo sin dai famosi Sacchi, uno dei cicli burriani più noti, il cui titolo, come quasi tutti i cicli dell’artista, si sovrappone perfettamente alla materia usata. Se è vero che i sacchi di juta grezza, con le loro cuciture e slabbrature, hanno un valore organico e aggressivo, è pure evidente che l’artista organizzi i brani di tessuto secondo partiture molto nette, come per tenere a bada le tensioni inquietanti della materia. E i sacchi non sono un caso isolato, lo stesso dialogo tra istinto distruttivo e capacità ordinatrice si ritrova anche nelle serie a seguire, come i Legni, le Combustioni, i Ferri o le Plastiche. Burri sembra avere due anime, una dionisiaca o infernale, che alleva coltivando le tracce di vita (o di morte) emergenti dalle sue materie; un’altra misurata e quasi apollinea, che condivide con Piero il gusto di misurare ritmicamente gli spazi occupati dalle forme e dai colori. In effetti in età avanzata, ormai stanco delle interpretazioni che cercano i significati più disparati nelle scelte di un metallo o piuttosto di un legno, Burri dice che le materie sono per lui quello che la tavolozza di colori è per il pittore. Dice poi che un quadro è riuscito quando è “equilibrio, struttura, ritmo, luce”. Un’affermazione degna di Piero, anche se con Burri è ormai scomparso ogni intento di imitare il mondo: il mondo, qui, si ritrova più urgente e diretto nei pezzi di materia e nelle loro grane e superfici. Gli equilibri e le strutture sembrano già presenti all’interno di esse e si vedono, in particolare, grazie al lavoro dell’artista sulle loro giunture, che si avvertono quasi come presenze naturali all’interno dei brani di materia. La luce non è più, come in Piero, l’effetto di un delicato impasto pittorico, ma il riflesso delle componenti fisiche dei materiali stessi. Lo vediamo nei riverberi offerti dai bozzi e dalle piegature dei Ferri, oppure nelle trasparenze ottenute dagli strati di plastiche bruciate e sovrapposte.
Nel pomeriggio, dopo aver mangiato alla trattoria Lea e aver scherzato con Celeste sulla presenza di ragni giganti nella assolatissima piazza Matteotti, conduco i soci nella sede espositiva degli Ex Seccatoi del Tabacco. Qui si trovano le opere monumentali degli ultimi due decenni, dagli anni Settanta al 1995. Il gruppo, che ormai ha familiarizzato con la furibonda compostezza dei quadri di Burri, guarda ammirato gli ultimi lavori, giganti come laiche pale d’altare. La lotta della materia si fa qui più sommessa, anche grazie alla scoperta dei cellotex, pannelli compressi di segatura e colla che lasciano affiorare una ruvidezza accennata e consentono a Burri di organizzare le superfici in scansioni più ampie e quasi monocrome. Prevalgono i toni del nero, a intarsi più lucidi o più opachi, a volte interrotti da macchie rosse o bianche, brillantissime.
Passeggiamo nelle sale immense di questo affascinante reperto di archeologia industriale. Siamo tutti un po’ stanchi ma ormai è chiaro che mi sbagliavo, Burri non è meno apprezzato di Piero della Francesca. Anzi, gran parte dei soci insiste per vedere anche il piano sotterraneo, pieno di lavori grafici sorprendenti per le tecniche sperimentali adottate e per l’improvvisa brillantezza dei colori. Il pullman riparte per Bologna intorno alle 17,30 e sulla strada per il ritorno Celeste ruba la scena al papà raccontando una storia che ha per protagonista la sua amica del cuore.
Foto di copertina: Una sala dei Seccatoi di Città di Castello – foto di Maria Ida Margani
Foto n. 1: Giacomo Calogero racconta Il Polittico della Misericordia al Museo di Sansepolcro – foto di Anna Zulli
Foto n. 2: La resurrezione di Piero della Francesca – foto di Anna Zulli
Foto n. 3: Giacomo Calogero racconta gli affreschi delle Storie della Vera Croce ad Arezzo – foto di Anna Zulli
Foto n. 4: Scorcio di Arezzo – foto di Anna Zulli
Foto n. 5: Madonna del Parto di Piero della Francesca a Monterchi – foto di Anna Zulli
Foto n. 6: Pierluca Nardoni davanti a un’opera di Alberto Burri a Palazzo Albizzini Città di Castello – foto di Anna Zulli
Foto n. 7: Gruppo CUBo in una sala dei Seccatoi a Città di Castello – foto di Anna Zulli
Foto. n. 8: Giacomo Calogero e Celeste – foto di Anna Zulli