All’essenza: Dallarte di Jonny Costantino
di Isabella Gorgoni Gufoni.
Se di un’artista si deve cogliere l’essenza, Dallarte di Jonny Costantino rende non solo l’essenza ma anche l’energia propulsoria dell’arte di Lucio Dalla e del fotografo Luigi Ghirri. Dallarte è un pastiche Jazz, la camera improvvisa sui visi dei suoi protagonisti, si inoltra in fotografie statiche che diventano scene in movimento veloci e vive, ha la vivacità di un quadro di Kandinsky e il ritmo di un brano di Parker. Gli spettatori possono godere di questo documentario con un sorriso, dal primo momento fino all’ultimo istante, travolti dalla spontaneità dei suoi narratori, come l’istintività di Angela Baraldi o la fanciullezza del pittore Lorenzo Mattotti.
Baraldi racconta i suoi ruggenti anni 80, passati tra le strade di New York e tour italiani, sempre al fianco dei suoi amici e idoli Luigi e Lucio. A noi spettatori sembra di vivere i ricordi della cantante grazie alla fotografia di Ghirri, scatti dietro cui si nascondono gli aneddoti più disparati, come il momento preciso in cui nasce Caruso, o l’istante sui prati delle isole tremiti in cui Lucio mise in crisi Angela con una battuta tagliente.
È l’amore a passare attraverso le parole di Angela, parole che danno l’impressione di non essere cambiate nel tempo, sembrano quelle di una ragazza ancora innamorata del suo mentore, lo descrive come un uomo estremamente gioioso nei confronti della vita, ma allo stesso tempo estremamente serio nei confronti del lavoro artistico. Diverso è il modo in cui viene raccontato Ghirri. Angela ne parla con più distacco dato da un enorme rispetto e fascinazione, lo si nota quando ad esempio lei scherzosamente si rimprovera di come a volte si sia posta in passato con il fotografo. Uno dei momenti da sottolineare dell’intervista ad Angela è quando, alla battuta datale dal regista Costantino «un artista ha sempre il coltello dalla parte della lama», lei risponde con una risata istintiva e liberatoria, per farsi subito dopo più seria, spiegando che un artista deve avere il coraggio di ferirsi ma non la volontà di ferire: la sua sofferenza è un dono per gli altri. La risata che Baraldi ci regala sembra data dall’assorbimento di quella frase che forse racconta anche la sua storia di ferite e cure continue che il suo percorso, essendo artista, le ha apportato. Durante il racconto, l’occhio della camera viaggia e si diverte assieme ai personaggi fotografati da Ghirri, intrufolandosi nella stanza di Caruso al Grand Hotel Excelsior Vittoria a Sorrento o sedendosi accanto a loro nei pub di Manhattan, permettendo così a noi pubblico di entrare in un’intima amicizia.

Un’altra protagonista di Dallarte è la dodici corde di Gionata Mirai. Il musicista stravolge, improvvisa e si connette profondamente con i brani più significativi di Lucio Dalla. I passaggi vanno dal più delicato, riportando alla mente John Fahey, al più vibrante e tetro, che scuote l’animo di chi ascolta. Mirai concede di riconoscere più chiaramente i passaggi musicali originali solo in alcuni attimi di aderenza alla realtà, che rafforzano la scelta di far sua l’interpretazione dell’essenza della musica di Dalla. Lorenzo Mattotti è un uomo i cui occhi sorridono sempre, sia mentre lo vediamo raccontare gli aneddoti che lo legano a Dalla, sia quando lo vediamo nelle foto del passato con il quale si presenta. L’umiltà di Mattotti è quella che caratterizza un po’ tutti i protagonisti di questa storia, che, pur essendo dei grandi artisti, si mettono in gioco e si mostrano vulnerabili. Il pittore dice di non aver mai incontrato Lucio Dalla, ma lo ha conosciuto e si è sentito vicino a lui tramite la musica ed i testi che Dalla portava nei suoi album. L’essere spettatore della sua essenza è ciò che gli basta per soddisfarlo pienamente. Questo rapporto di stima si evince dai racconti, raggiunge il culmine quando il pittore improvvisa con pochi precisi schizzi di penna il ritratto di Lucio Dalla, la mano ferma e gentile costruisce un’immagine pura, non imbellettata né caricaturale, semplicemente vera e piena di peli come era la pelle del musicista.
La giocosità di Lucio viene esaltata nei momenti in cui lo vediamo nel film Quijote (2006) nei panni di Sancho Panza, pochi gesti come un accenno ad una pisciata fuori programma nel cammino con Don Chisciotte, oppure parole russate e urlate come «Soppressata!» in un sonno molto affamato. Scelte scherzose solo a primo impatto, che ci immergono esattamente nella follia e nel tenore dell’opera. Lucio Dalla sembra sia stato in primo piano tutto il tempo del documentario, nonostante lo si veda poco in azione attiva, se non in questi interludi o in brevi frammenti di interviste. Dell’energia dell’artista protagonista è impregnato anche il finale, quando ad interpretarlo abbiamo la stessa Angela Baraldi in concerto con Gionata Mirai che sui testi di Roversi riporta un canto dall’anima, quasi ancestrale. E poi c’è l’attore Fulvio Accogli che, trasformandosi in un’animalesca creatura dall’aspetto inquietante, invita dolcemente a stare insieme a lui per sopportare meglio le insidie e le sofferenze che si proiettano nella testa di un sognatore.
Gli artisti che vediamo, sentiamo e percepiamo in questo film hanno e rimandano la forza che li caratterizza, la voglia di creare senza freni inibitori. Questo documentario restituisce così tanta energia, che può essere curativo per un artista che si sente in blocco creativo. È uno schiaffo per i pigri e una spinta per i volenterosi.