Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie UniBo: cacciatori di virus

di Lorenzo Monaco

Analizzati all’Alma Mater i dati genetici di tutti i coronavirus sequenziati nel mondo. Lo studio, subito pubblicato in rete, ha lo scopo di permettere alla medicina di trovare degli strumenti per arginare l’epidemia.

I bollettini dell’epidemia, l’altrettanto epidemico panico – con il suo corollario fatto di assalti ai supermercati e a farmacie – gli ignobili rigurgiti razzisti, le controverse reazioni della politica, hanno posto sottotraccia un fatto: anche nel caso dell’epidemia da coronavirus la scienza ha messo in campo i suoi strumenti con una rapidità sorprendente. Nel giro di poche settimane infatti 56 centri di ricerca sono riusciti a mettere le mani sul virus, aprendolo ogni volta come un minuscolo scrigno e mettendo a nudo, e disposizione dell’intera comunità mondiale, i suoi segreti. L’Università di Bologna, poi, ha prodotto e immediatamente pubblicato una prima analisi di tutta questa mole di dati.
È una cifra della modernità: nella maggior parte delle epidemie, gli esseri umani hanno dovuto fare a meno di tutta questa conoscenza. Per secoli la stessa esistenza dei virus non era che una deduzione logica: ci si ammalava, si appurava che la causa non era un batterio – organismi da metà ‘800 visibili al microscopio – e quindi si ipotizzava l’esistenza di un fattore misterioso capace di scatenare patologie. L’iperbole tecnologica degli occhi – l’innovazione novecentesca dei microscopi- rese possibile vedere questi oggetti nanometrici, dando immagine a ciò che si vociferava da quasi un secolo e comprendendo che si aveva a che fare con una forma biologica che ancora sfugge alla definizione convenzionale di vita, ma che ne possiede gli stessi imperativi di fondo: sopravvivere e moltiplicarsi. I cacciatori di virus cominciarono quindi a capire molte cose, prima solo intuite, su questi enti biologici: provengono per la stragrande maggioranza dal mondo degli animali – circa il 60% delle malattie comparse tra il 1940 e il 2004, secondo una ricerca pubblicata da Nature – e non sono cellule, ma semplicissime capsule proteiche che contengono brevissimi filamenti di informazione genetica (DNA o RNA). In pratica, queste scatoline biologiche grandi in media un decimo di una cellula batterica, possiedono pochissime istruzioni per il loro funzionamento, al massimo 3 milioni di basi contro 3 miliardi di quelle di un topo. Niente che consenta a loro di riprodursi autonomamente. Per sopravvivere quindi devono intrufolarsi nelle cellule, che per loro sono industrie straordinariamente complesse, usarne i macchinari in maniera parassitaria e così produrre copie di sé. Il nuovo coronavirus (SARS-CoV2) non fa eccezione: mediaticamente noto per gli aculei che ricoprono il suo involucro – caratteristica comune a tutta questa classe di virus – contiene un breve filamento di RNA (solo 30mila basi) e ha trovato la sua alcova negli esseri umani.

Gli strumenti per bloccarlo sono quelli che abbiamo imparato a conoscere in questi mesi. Da un lato impedire la sua diffusione limitando il contatto fra le persone, dall’altro producendo armi per distruggerlo, sviluppando terapie mediche o potenziando il nostro sistema immunitario coi vaccini.
Il sequenziamento del suo RNA – cioè il riconoscimento di tutte le unità chimiche che lo compongono – ha anche questo fine. Come detto, in poche settimane la ricerca è riuscita ad estrarre 56 volte il virus da pazienti infetti. Ma il risultato, già ottimo, non sarebbe utile senza un approccio libero alla conoscenza: tutte le sequenze sono state infatti depositate in rete su database liberamente accessibili a chiunque le voglia studiare (una metodica inaugurata coraggiosamente nel 2006 dalla scienziata italiana Ilaria Capua quando pubblicò su GenBank, un database open access la sequenza genetica del ceppo africano di influenza aviaria H5N1). Grazie alla libera circolazione delle informazioni, i dati sono arrivati anche nelle stanze dell’Università di Bologna, dove Federico Manuel Giorgi, ricercatore di bioinformatica al Dipartimento di Farmacia e Biotecnologie, ha deciso con Carmine Ceraolo, studente della laurea internazionale in Genomics dell’UniBo, di costruire la filogenesi di questo tipo di virus.

Federico Manuel Giorgi

Si tratta di una sorta di albero genealogico costruito confrontando base per base i patrimoni genetici virali e la cui lunghezza dei rami esprime la maggiore o minore parentela tra i ceppi. Questo studio, la più grande meta-analisi realizzata di tutti i genomi finora sequenziati del coronavirus, ha confermato la sua probabile origine nei pipistrelli, essendo il suo RNA molto simile (al 96,2%) a quello che si trova nel Rhinolophus affinis, un chirottero comune nel sud-est asiatico (con la SARS invece ha una sovrapposizione di solo l’80,3%).
Tra i complessi dati riportati dallo studio bolognese, pubblicato in inglese sul Journal of Medical Virology , oltre alla inedita caratterizzazione di due sottotipi di virus, emerge una buona notizia: il coronavirus muta poco; tutti i ceppi sequenziati in tutto il mondo sono praticamente uguali (99%) Questa caratteristica, piuttosto sorprendente per un virus a RNA, implica che una volta trovato un vaccino o una terapia farmacologica in qualsiasi parte del mondo, questa dovrebbe essere facilmente applicata a tutti i contagiati.

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