Carducci, il poeta senza tempo
di Silvia Rizzetto.
Giosuè Carducci, protagonista indiscusso della cultura nazionale del tardo Ottocento, si spense a Bologna il 16 febbraio 1907, nella sua abitazione a pochi passi dalle mura, in quella piazza che oggi porta il suo nome. Primo letterato italiano a essere insignito del premio Nobel nel 1906, i suoi versi continuano ad affascinare le nuove generazioni.
Lo testimonia Francesca Florimbii, professoressa di filologia e letteratura italiana, che racconta l’entusiasmo dei suoi allievi: «Si sono accorti che Carducci è in grado di parlare anche a loro, perché è estremamente legato al nostro presente, poteva perfettamente approdarci». Abbiamo chiesto alla docente quale fu il rapporto del poeta toscano con la città emiliana.
Carducci arrivò all’università di Bologna nel 1860, dopo un periodo passato come insegnante nelle scuole secondarie. Che aria si respirava in città?
«Nel 1859 Bologna si liberò dal dominio dello Stato pontificio e dal plebiscito di marzo 1860 passò alla monarchia. Era una città moderna, democratica e libertaria, fama che senz’altro era arrivata a Carducci. Un aspetto nuovo e aperto che lo stesso Carducci ricordò nella sua prima prolusione all’università nel novembre del 1860».
Che docente era Carducci?
«Nei primi anni era scontento. Scriveva di avere pochi scolari e che i presenti probabilmente pativano il freddo a casa per preferire le lezioni del professore, un ‘istrione pagato’. Carducci si impegnò per cambiare l’insegnamento, ancora connesso con la tradizione ma che si stava aprendo alla filologia e allo studio delle lingue».
Che rapporto aveva con i suoi allievi?
«Hanno riconosciuto la sua grandezza come docente ed erudito, come uomo attento ad ascoltare le loro idee, a lasciare a loro uno spazio adeguato, a non volere mai mescolare la politica con la letteratura italiana e le lingue. È stato detto che più era se stesso, meglio riusciva a professare la sua docenza».
Ci sono luoghi di Bologna ai quali era maggiormente legato?
«Dobbiamo aspettare gli anni Settanta per vederlo muoversi all’interno della città, lo si deve a Lina Cristofori Piva, la Lidia delle Odi barbare che lo portò a uscire al di fuori delle mura domestiche e accademiche. Nelle poesie di Carducci ci sono piazza San Petronio, le due torri, la Certosa, in realtà la sua vita era fatta di passeggiate, anche notturne, in centro, in periferia e sui colli».
Qual è l’episodio che lo rese celebre in città?
«È con la prolusione che inaugurò l’anno accademico, il 16 novembre 1874, che Carducci iniziò a essere consacrato dai bolognesi. In quell’occasione si rivolse ai giovani, esortandoli ad acquistare attraverso gli studi la cittadinanza del mondo. L’augurio risuonò non soltanto nell’ateneo ma anche in tutta la città, che iniziò a capire che quel professore giunto dalla Toscana rappresentava a tutti gli effetti la cultura bolognese».

In quegli anni la sua poetica ebbe un’evoluzione. Che elementi possiamo individuare?
«Dalle prime Odi barbare notiamo un innalzamento del livello poetico. Si assiste a una fusione fra Carducci professore, erudito, uomo, poeta. Ci sono accorgimenti metrici che andranno a modificare la sua produzione. È un Carducci a tutto tondo, strettamente legato alla cultura della città, che deriva dalla sua professione: quella di letterato e professore universitario».
C’è un aspetto di Carducci che lo rende ancora attuale?
«Penso alla Notte dei ricercatori del 2020. In quell’occasione un gruppo di studenti ha presentato un progetto di ricerca intitolato Ritorno a Carducci. I ragazzi avevano iniziato a lavorare sul poeta durante il lockdown, quando hanno riconosciuto all’interno della sua poesia diversi punti di contatto con il presente che, circolare, si fa passato e torna a essere presente. Due esempi sono l’immagine della ferrovia e il cinema».

