Claude Monet e i suoi amici: tra collezionisti e artisti una storia di famiglia

Per chi è riuscito a vederla, nonostante lock down e pandemia, la mostra “Monet e gli Impressionisti. Capolavori dal Musée Marmottan Monet di Parigi”, a Palazzo Albergati a Bologna, si presenta come un racconto tra dimensione pubblica e privata di legami familiari e affettivi tra gli artisti del circolo impressionista, operanti tra gli anni Sessanta e Ottanta del XIX secolo. In questo racconto a spiccare è, naturalmente, la star Claude Monet, presente in ogni sezione della mostra al piano terra e protagonista (quasi) assoluto al piano superiore, dove il racconto oltrepassa l’Impressionismo entrando nella fase matura e finale della sua vita e opera.

I legami personali e professionali tra gli artisti impressionisti nascono nel 1862 all’Ecole des Beaux-Arts di Parigi, dove stringono amicizia Pierre Auguste Renoir, Alfred Sisley, Frédéric Bazille e Claude Monet, a cui in seguito si aggiungeranno gli altri (e le altre). Il debutto ufficiale è nel 1874 con la prima collettiva e suggella il rapporto complesso e imprescindibile del movimento pittorico con il nuovo e rivoluzionario mezzo fotografico che, come ha osservato Giulio Carlo Argan, «ha contribuito ad allargare l’interesse dei pittori per lo spettacolo sociale». A ospitare la celeberrima mostra in Boulevard des Capucines, infatti, è lo studio di un fotografo, il più grande, Gaspar-Félix Tournachon, in arte Nadar, tra i primi a cogliere l’influenza della fotografia nella cultura di massa e soprattutto, a farne un business.

Claude Monet, Campo di tulipani in Olanda, 1886|© Musée Marmottan Monet, Paris/Bridgeman Giraudon Images

Il percorso espositivo si apre con un paesaggio olandese dipinto da Monet che introduce subito al tema dell’en plen air, la pittura di paesaggio con presa diretta dalla realtà – da cui buona parte di questi artisti ha attinto a piene mani – e nel contempo omaggia la pittura olandese del XVI secolo, nata in reazione alle vecchie tradizioni culturali monarchiche e cattoliche che stavano lasciando il posto alle nuove istanze repubblicane. Nei corsi e ricorsi storici di cui l’arte è piena, anche negli anni in cui emergono gli impressionisti c’è una rottura della regola degli opposti Classico/Romantico su cui fino ad allora si era fondata la critica e la storiografia. La pittura en plen air è praticata dagli artisti fin dal Rinascimento ma è attraverso la lettura realista che cambia lo sguardo: per i pittori impressionisti realizzare opere a contatto diretto con il soggetto significa catturare il più possibile la mutevolezza della luce, elemento portante della composizione e veicolo della significazione. Per loro ogni visione è diversa dall’altra ma non si tratta di visioni soggettive deviate dal pensiero e dalle attitudini individuali quanto piuttosto di diversi momenti di luce e ombre, diverse percezioni oggettive di un medesimo soggetto.

Claude Monet, La Senna a Port Villez. Effetto rosa, 1894|© Musée Marmottan Monet, Paris/Bridgeman Giraudon Images

È un altro modo di raccontare Parigi che, come osservava Baudelaire, «muta più in fretta del cuore dei mortali». Ne sono esempio i paesaggi di Camille Pisarro, Alfred Sisley, le serie di Monet e gli stessi paesaggi di Argenteuil presenti in mostra, dipinti nel corso di lunghe sedute di posa condivise con gli amici e colleghi allo scopo di confrontare le tele appena dipinte per rilevarne le differenze di luce e ombra.

Tra i fattori peculiari per lo sviluppo del movimento spicca in mostra il fenomeno del Giapponismo, scaturito dall’apertura dei commerci verso il Sol Levante (fino ad allora concesso in Europa solo all’Olanda), che riversa in Occidente una vera e propria invasione di oggetti che conquista il gusto di molti artisti e intellettuali. In Les Peintres Impressionnistes, scritto nel 1878 da Theodore Duret, Claude Monet e Berthe Morisot, c’è un passaggio in cui Monet osserva «ci sono voluti gli album giapponesi perché qualcuno osasse sedersi in riva a un fiume per accostare su una tela un tetto arditamente rosso, un muro bianco, un pioppo verde, una strada gialla e dell’acqua blu. Prima del Giappone tutto ciò era impensabile, il pittore mentiva sempre. La natura con i suoi toni decisi gli feriva gli occhi».

Pierre Auguste Renoir, Ritratto di Mademoiselle Victorine de Bellio, 1892|© Musée Marmottan Monet, Paris/ Bridgeman Giraudon Images

Ma negli interessi di questi pittori non c’è solo la natura. È soprattutto nei molti ritratti presenti in mostra che emerge il filo conduttore del racconto per immagini, che ci parla di incontri, amori, amicizie, legami interrotti e ripresi. La prima sezione della mostra è dedicata alla nascita della collezione Marmottan Monet.

L’edificio che ospita il Museo si trova nel XVI° arrondissement, a Rue Louis Boilly, nei pressi del Bois de Boulogne, che, a seguito della morte del suo proprietario, Paul Marmottan, diventa museo nel 1934 e nel corso degli anni si arricchisce delle donazioni di numerose collezioniste e collezionisti, prima fra le quali Victorine de Monchy, che possiamo vedere in mostra ritratta da Renoir. Il padre della giovane è stato il dottor Georges de Bellio, medico e amico dei pittori impressionisti che gravitavano a Parigi alla fine del XIX secolo e grande collezionista suo malgrado: i numerosi artisti che spesso si trovava a curare erano soliti sdebitarsi con i loro dipinti, dando origine alla collezione che rappresenta il primo nucleo di opere del museo.

Berthe Morisot, Donna con ventaglio o Il ballo, 1875|© Musée Marmottan Monet, Paris/ Bridgeman Giraudon Images

Sempre alla donazione de Bellio appartiene il dipinto “Donna con ventaglio” di Berthe Morisot, l’unica artista donna presente in mostra (ma non l’unica nel movimento, ricordiamolo). Il dipinto è un richiamo classico e mondano alla bellezza femminile mentre ha un sapore molto più intimo “Ritratto di Berthe Morisot distesa” di Édouard Manet. Manet conosce le sorelle Morisot nel 1868 in occasione di una seduta di copia al Louvre e da allora inizia tra i due un profondo rapporto di amicizia, che diventa poi familiare: nel dicembre del 1874 Berthe sposa Eugène Manet, il fratello di Édouard.

Édouard Manet, Ritratto di Berthe Morisot distesa, 1873|© Musée Marmottan Monet, Paris/ Bridgeman Giraudon Images

In questo ritratto la donna ha 32 anni e la sua giovane sfrontatezza è resa dall’audacia dell’espressione e dallo sguardo diretto e coraggioso, che ricorda la celeberrima opera dell’artista del 1863, Olimpia.

Si tratta, per converso, di un’iconografia diversa dalla delicata ritrosia delle donne che Morisot stessa è solita ritrarre e molto vicina invece alla resa lucida della realtà tipica di Manet. Questa postura così poco convenzionale è mediata in Manet da Courbet ma è fondamentale anche l’influenza dell’arte orientale.

La prima mostra europea di arte giapponese si tiene all’Esposizione Internazionale di Londra nel 1862 e fa conoscere l’opera di grandi maestri del movimento dell’Hukiyo-e (letteralmente “immagini del mondo fluttuante”).

Kitagawa Utamaro, Beltà che si gode la frescura, 1794-95|© City Museum of Art, Chiba

Ed è in particolare a Kitagawa Utamaro, conosciuto in larga parte per la sua rappresentazione del mondo femminile legato alle ‘case verdi’ (case del piacere) che guardano entrambi i ritratti: per Morisot l’attenzione è al dettaglio del ventaglio, veicolo della bellezza, del colore e della leggerezza, oggetto arrivato dall’Oriente a conquistare la borghesia europea, mentre è il corpo della donna che Manet indaga adottando, come Utamaro, una anatomia leggera che, ci insegna l’artista, può assumere posture lontane dalle consuete iconografie.

Edgar Degas, Ritratto di Henri Rouart, 1871|© Musée Marmottan Monet, Paris/Bridgeman Images

Nel 1996 entra a far parte del patrimonio del Marmottan un’altra importante raccolta, comprendente opere di Berthe Morisot, Edgar Degas e Henri Rouart. Si tratta della donazione degli eredi Manet-Rouart. Tra queste opere spicca, nonostante il piccolo formato, “Ritratto di Henri Rouart” di Edgar Degas, che ritrae appunto il pittore e ingegnere Henri Rouart, a lui legato da amicizia fraterna. I due furono compagni di studi liceali a Parigi. Oltre a prestare sostegno finanziario agli impressionisti, Rouart fu anche un pittore di talento che partecipò a sette delle otto mostre del movimento.

Pierre Auguste Renoir, Ritratto di Julie Manet, 1894|© Musée Marmottan Monet, Paris/ Bridgeman Giraudon Images 

Fu padre di Ernest Rouart, pittore impressionista e marito di Julie Manet, figlia di Berthe Morisot e Eugène Manet, protagonista di un altro intenso ritratto realizzato nel 1894 da Renoir, due anni prima che la giovane desse alle stampe “Growing up with the Impressionist”, la sua biografia in cui è raccontata la vita dei protagonisti del movimento, che per lei furono famiglia, soprattutto in seguito alla tragica perdita dei due genitori, morti entrambi in giovane età.

Salendo al primo piano si abbandona la biografia collettiva del movimento impressionista e ci si immerge, come già anticipato, nella fase matura e tarda di Claude Monet, spirito guida della mostra in cui, come ha osservato Stefano Zuffi, «la vecchia ‘impressione’ lascia il posto alla nuova ‘contemplazione’». Alla morte di Michel Monet, secondogenito di Claude, nel 1966 il Marmottan accoglie la più grande collezione di opere dell’artista al mondo. Alla fine degli anni Novanta per il prestigio acquisito il museo cambia la sua denominazione diventando Musée Marmottan Monet.

Il personale percorso pittorico di Monet nella seconda parte della mostra parte dal primo soggiorno ad Argenteuil, dove l’artista si trasferisce di ritorno dai Paesi Bassi e dopo una breve sosta a Parigi alla fine del 1871 e arriva fino all’anno della sua morte, il 1926. Esaurita la portata innovativa dell’Impressionismo, l’artista avvia una pura ricerca sul colore, che cronologicamente coincide con il trasferimento in una tenuta con un grande frutteto a Giverny, un villaggio della Normandia a settantacinque chilometri da Parigi. Nel 1883 Claude va a viverci con Alice Hoschedé, vedova del suo amico, collezionista e collaboratore, Ernest Hoschedé, (che, dopo essere stata la sua amante per anni, sposa in seconde nozze) e i figli di entrambi. Monet trasforma la nuova residenza di famiglia e studio d’artista a propria immagine e somiglianza: i muri della casa vengono dipinti di rosa e le porte, le balaustre e le persiane di uno squillante ‘verde Monet’. Nel 1890, con una rinnovata sicurezza economica, l’artista compra la casa e il terreno intorno e inizia il suo progetto: la creazione di un giardino «che deliziasse gli occhi e che provvedesse a fornirgli soggetti da dipingere». Deviando il corso del fiume Epte per farlo passare dalla sua proprietà, egli crea un giardino acquatico con uno stagno su cui costruisce un ponte in stile giapponese, che troviamo presente in mostra in un coinvolgente percorso verso l’astrazione.

Il giardino di Giverny diventa così il fulcro delle sue opere e l’artista che per anni ha inseguito la luce e le maree ora è fermo nel suo giardino a creare in una immensa e mutevole istallazione i soggetti delle sue tele. In questo microcosmo di creature acquatiche trovano posto tra tutte le delicate specie floreali iris, rose e ninfee, definite da Marcel Proust «fiori sbocciati in cielo», che diventano per l’artista la metafora della propria introspezione a partire dal 1911, anno particolarmente duro poiché Claude perde Alice e il suo figlio minore Jean. Nel suo giardino, l’artista, ormai anziano, abbandona il contatto con la contemporaneità; ora ciò che dipinge non è più il dinamismo della città moderna ma qualcosa di fermo, immerso nell’acqua e nel vapore atmosferico ma nel contempo parte di un flusso continuo di nascita, crescita e abbandono.

Claude Monet, Le rose, 1925-1926 |© Musée Marmottan Monet, Paris/Bridgeman Images

Le rose è l’ultimo dipinto realizzato da Monet quando è già quasi cieco ed è la tela che chiude il percorso della mostra. La fioritura del roseto lungo il viale centrale davanti alla tenuta di Giverny è resa in modo struggente, tra atmosfere orientali e pittura informale.

La fortuna critica di Claude Monet ha avuto fasi alterne. Dopo la Grande Guerra in arte ci fu una sorta di ‘ritorno all’ordine’ che ha lasciato emergere un rinnovato interesse nei confronti dei soggetti pastorali, come a rimarcare la nostalgia di un mondo pacifico e prebellico. In questo contesto il Monet dei covoni e delle scogliere rientrava perfettamente ma non rientrava lo stile indistinto dei soggetti esotici legati alla sua ultima produzione. Questo abbandono della Normandia rurale a vantaggio di una natura fai da te di Giverny non era molto gradita ai critici e quasi disprezzata dai giovani artisti emergenti, come il pittore cubista Andre Lhote, che ebbe per lui parole ben più dure di quelle che decenni prima riservò a lui e ai suoi amici il critico Leroy, in occasione della prima esposizione impressionista parigina. Le cose cambiarono però dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando i solidi impianti geometrici e controllati degli anni Venti vengono accantonati a vantaggio di una nuova crisi della forma e della materia. Le Ninfee, allora esposte all’Orangerie, diventano tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta una vera e propria mecca per gli studenti americani. Il tripudio astratto di colore attrae con forza giovani studiosi d’arte che apprezzano l’esuberanza spontanea di questa produzione di Monet. Tra questi Elswall Kelly, che poi sarebbe divenuto il celebre artista astratto dell’Hard Edge Painting e del Minimalismo, e Sam Francis, maestro dell’Espressionismo astratto. Nel 1954, al Brooklin Museum di New York, si tiene una retrospettiva impressionista che fa notare al critico d’arte Robert Rosemblum (futuro curatore del Guggenheim) delle forti analogie tra la pittura di Monet e le ultime tendenze della pittura americana. Tutta questa celebrazione dell’artista è curiosa perché Monet odiava ogni forma di arte avanguardista e non aveva alcuna simpatia per gli americani. Eppure, questo rinnovato interesse per il periodo tardo dell’artista, mediato dalla critica statunitense, ha riportato in auge la sua opera, che ancora attrae e affascina in tutto il mondo.

https://www.palazzoalbergati.com/monet-e-gli-impressionisti-2/

Note di Lara De Lena

Laureata in Lettere moderne, si specializza nel 2017 in Beni storico artistici con una tesi in arte contemporanea. Dal 2016 collabora a lavori di ricerca per pubblicazioni e/o progettazione e allestimento di mostre di ambito contemporaneo. Lavora all’Università di Bologna nel comparto amministrativo e per il CUBo cura articoli e visite guidate a mostre itineranti e collezioni permanenti nel circuito emiliano-romagnolo.
https://independent.academia.edu/LaraDeLena

Lara De Lena

Lara De Lena

Laureata in Lettere moderne, si specializza nel 2017 in Beni storico artistici con una tesi in arte contemporanea. Dallo stesso anno collabora con il CUBo, di cui è nel direttivo dal 2021. Ha collaborato con la Pinacoteca Nazionale di Bologna, il MAMbo e ha partecipato al progetto internazionale ADM - Art Market Dictionary. È impegnata nella realizzazione dell’Archivio digitale Roberto Daolio.

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