Cultura e genetica: un binomio possibile?
Intervista a Eugenio Bortolini a cura di Francesca Sibilla
Come si sono diffuse le fiabe in Europa, Africa e Asia? Quanto hanno inciso i grandi processi migratori e quanto il “passa parola” orale? La genetica può aiutarci a ricostruire questi fenomeni?
Uno studio recente ci aiuta a scoprirlo.
Da quale contesto scientifico-culturale ha preso le mosse questa ricerca? Eugenio Bortolini: Questo studio nasce nell’ambio dell’archeologia evolutiva, una branca dell’archeologia molto diffusa in Europa soprattutto in Germania e in Inghilterra, ancora poco o per nulla rappresentata in Italia. E’ un indirizzo specifico dell’archeologia che trae metodi e approcci dalla biologia delle popolazioni e li usa per analizzare la variabilità nella cultura materiale unendoli a elementi di cultura popolare. Ha avuto moltissime applicazioni per spiegare ad esempio il turnover nei nomi dei neonati, l’evoluzione delle biciclette, lo sviluppo della ceramica e anche, come in questo caso, la diffusione delle fiabe.
Come nasce l’idea di partire dalla genetica per rispondere alla diffusione delle fiabe? EB: Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una vera e propria rivoluzione nell’ambito della genetica. Oggi abbiamo infatti la possibilità di estrarre l’intera sequenza del genoma nucleare di un individuo. Questo apre possibilità di andare più in profondità nel tempo e permette di comprendere meglio la stratificazione di questa variabilità. Pensando anche ad un futuro prossimo in cui avremo una vasta disponibilità di dati genetici l’obiettivo era capire le potenzialità e i limiti dell’utilizzo delle nuove sequenze complete di genoma e se questi dati possono essere usati per indagare processi che riguardano la storia e l’evoluzione umana considerando le due facce dell’adattamento umano: quello biologico e quello culturale.
Quali fiabe avete considerato nel vostro studio e perché? EB: Volevamo cercare un’evidenza che fosse universale, la scelta si è orientata sulle fiabe perché se è vero che tutti abbiamo un corredo genetico è anche vero che tutte le culture umane condividono delle fiabe. Ci siamo basati su un catalogo internazionale di fiabe universalmente riconosciuto, l’Aarne-Thompson-Uther –ATU, il risultato di secoli di ricerche nell’ambito del folclore e dell’antropologia, accettato dalla maggior parte degli specialisti come base di dati utilizzabile. Il catalogo classifica fiabe individuali, rintracciabili all’interno di una serie di culture umane. Per lo studio abbiamo considerato le prime 596 fiabe raggruppate nel catalogo ATU in due macro ambiti: le “Fiabe di Magia” e le “Fiabe di animali”, che includono anche fiabe molto note come “Pollicino”, “L’Apprendista stregone”, “Il tavolino magico, l’asino d’oro e il bastone castigamatti” ecc.

Quale metodo avete utilizzato? EB: Abbiamo selezionato 33 popolazioni distribuite in modo omogeneo in Europa, Africa e Asia e delle quali potevamo disporre delle sequenze genomiche grazie all’Estonian Biocentre, il centro di ricerca di genetica e genomica dell’Estonia. Dopodiché abbiamo analizzato la presenza e l’assenza delle 596 fiabe selezionate dall’ATU nelle 33 popolazioni verificando quali popolazioni possedevano sia l’evidenza del genoma sia l’evidenza delle fiabe.
Qual era l’ipotesi di base? EB: Abbiamo cercato di capire quale è stato il meccanismo principalmente responsabile della diffusione delle fiabe nelle popolazioni esaminate, assumendo come ipotesi di base che i geni hanno un solo modo di muoversi: i piedi delle persone. Il numero di fiabe condivise tra una coppia di popolazioni è stato confrontato da un lato con la somiglianza genetica, usata come indice dei movimenti migratori che hanno dato forma alla nostra variabilità genetica, dall’altro con la vicinanza o distanza geografica, usata come indice di un processo complementare alla migrazione ovvero la trasmissione orale tra popolazioni contigue secondo l’ipotesi che le informazioni e la cultura si possono trasmettere senza che ci sia necessariamente un movimento di popolazione, ma anche appunto attraverso un “passaparola”, un colossale “telefono senza fili” in cui la diffusione avviene di “bocca in bocca” tra popolazioni prossime geograficamente.
A fronte delle ipotesi iniziali quali sono stati i risultati della ricerca? EB: E’ emersa una realtà composita, più complessa del modello da cui siamo partiti. A grande scala geografica, considerando ad esempio tutto il continente euroasiatico, è molto difficile stabilire che le migrazioni umane abbiano avuto un ruolo preponderante nella diffusione delle fiabe. Al di sopra dei 6-7.000 chilometri, dal Portogallo al Giappone per intenderci, non abbiamo una traccia che ci porti a dire che il processo di diffusione delle fiabe sia strettamente connesso in modo prevalente al processo migratorio. Oltre una certa distanza dobbiamo assumere che il processo del “passaparola”, del “telefono senza fili” e quindi la trasmissione puramente orale sia stata preponderante. Allo stesso tempo, su scala geografica più bassa, sotto i 3-4.000 chilometri, abbiamo un segnale chiaro di come le migrazioni e i movimenti delle popolazioni abbiano impattato sulla diffusione delle fiabe analizzate. Come corollario abbiamo cercato di individuare anche le possibili aree da cui la diffusione può avere avuto inizio per alcune fiabe presenti al 90% nelle nostre popolazioni, cercando di stabilire un metodo. Abbiamo individuato quattro centri di diffusione principali: l’Europa orientale, il Caucaso, l’Africa occidentale e l’Asia settentrionale emersa nel caso della famosa fiaba di “Pollicino”.
Quali altri aspetti dello studio reputi interessanti? EB: Misurarsi con il processo orale come meccanismo preponderante di trasmissione delle fiabe al di sotto di una certa distanza geografica, ha voluto dire confrontarsi anche con l’aspetto linguistico. In particolare, nello studio si è valutato anche l’impatto delle “barriere linguistiche”. Come è facile immaginare e come è emerso da studi precedenti, abbiamo riscontrato che le barriere linguistiche hanno un impatto sia sulla somiglianza genetica sia su quella culturale. L’aspetto interessante è che tali barriere hanno un’intensità e un raggio d’azione molto maggiore e più vasto sulla variabilità culturale di quanto non lo abbiano sulla variabilità genetica ovvero impediscono o limitano di più la possibilità di scambio di informazioni culturali di quanto non facciano a livello di informazioni genetiche. Al di là di un dato raggio geografico, se il processo di trasmissione dominante è quello di una diffusione orale e di un “passaparola”, la barriera linguistica ha un ruolo determinante, di questo aspetto abbiamo tenuto conto nei nostri risultati.

Qual è il contributo di questa ricerca sullo studio dell’evoluzione umana e quali saranno gli sviluppi successivi? EB: Questo studio rappresenta un primo passo in molte direzioni interessanti per lo studio del movimento e dell’evoluzione umana e per i processi di trasmissione culturale. È una panoramica ampia che ha restituito l’idea globale di un processo tralasciando necessariamente alcuni aspetti specifici, questo ha significato, ad esempio, non soffermarsi sul percorso di diffusione di una fiaba in particolare. Nei prossimi studi cercheremo di valorizzare il dato ottenuto e cioè che su scale diverse possiamo aspettarci processi diversi indagando meglio anche i singoli “percorsi di diffusione” delle fiabe. Ma non solo. Vogliamo andare ancora più indietro nel tempo, valorizzando il potenziale dell’evidenza genetica-genomica e lavorare sui miti. Oggetto di studio saranno i “mitemi” ovvero nuclei, argomenti, gli elementi costitutivi della narrazione mitica.
Che visibilità hanno avuto i risultati? EB: Lo studio è stato pubblicato su “Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States (PNAS)”, rivista interdisciplinare che tratta temi e studi trasversali che coinvolgono discipline diverse per rispondere a domande condivise. I temi sono molto vari, spaziano dalla fisica alla biologia includendo anche aspetti culturali, antropologici e archeologici. Escludendo le riviste in ambito scientifico e medico, è la quarta rivista a livello internazionale più rilevante. Per questo approccio trasversale, favorisce molto la contaminazione delle discipline.
Il lavoro è stato condotto da professionisti di università italiane ed europee, cosa ha significato questo? EB: Le professionalità e le competenze coinvolte nella ricerca sono state numerose fin da subito e il loro coinvolgimento è stato incrementale. La ricerca ha colto stimoli e intuizioni molto diverse sia per ambito di provenienza sia per le diverse expertise e storie professionali coinvolte. Questo ha arricchito moltissimo il lavoro, dandogli già in partenza una dimensione internazionale. Ho contattato immediatamente antropologi e folcloristi che si sono occupati dello studio delle fiabe, tra cui Jamshid J. Tehrani dell’Università di Durham, l’antropologo con cui ho condiviso l’approccio evolutivo dell’archeologia e dell’antropologia che ha partecipato allo studio in qualità di autore senior e Luca Pagani dell’Università di Padova in qualità di esperto e responsabile del dato genetico. Lo studio è stato realizzato anche con la partecipazione e il coinvolgimento del Laboratorio di Antropologia Molecolare del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali – BiGeA dell’Università di Bologna.
Quali sfide avete dovuto affrontare? EB: Nel complesso è stata una bella esperienza, si è trattato di uno studio impegnativo, durato più di un anno e iniziato come “side project”, anche se via via che lo studio prendeva corpo mi sono reso conto che meritava sempre più impegno e concentrazione. La sfida è stata affrontare i problemi linguistici, ascoltare i molti pareri dal punto di vista del folclore. In questo ambito è attiva una discussione molto vivace, i punti di vista da tenere in considerazione sono molti e abbiamo dovuto trovare dei metodi robusti per testare le nostre ipotesi. Inoltre, essendo la prima volta che si guardava congiuntamente diffusione delle fiabe e dato genomico, ci siamo posti molti dubbi e molte domande. Confidiamo di essere riusciti a mettere un tassello per progredire nella ricerca in questa direzione.

In che modo gli studi che hai compiuto e i risvolti dell’indagine stanno impattando sul tuo lavoro? EB: Attualmente sto lavorando su un progetto europeo e sto cercando di promuovere l’approccio appreso che guarda contestualmente al cambiamento biologico e a quello culturale come a due facce della stessa medaglia. C’è un adattamento genetico e biologico ma anche culturale senza il quale non saremmo qui. Nel prossimo semestre, inoltre, mi occuperò di un percorso laboratoriale per gli studenti del Dipartimento di Beni Culturali di Ravenna che ha l’obiettivo di promuovere l’uso della statistica e dell’analisi quantitativa per rispondere alle sfide di antropologi e studiosi di beni culturali, favorendo la contaminazione di discipline diverse, direzione in cui l’Ateneo sta spingendo molto.
SCHEDA BIOGRAFICA. Eugenio Bortolini è ricercatore all’Alma Mater presso il Dipartimento di Beni Culturali di Ravenna. Si è laureato presso questo Ateneo in Archeologia presso la ex Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali, per poi conseguire la laurea magistrale all’Institute of Archaeology dell’University College of London (UCL), il primo istituto nato in Inghilterra e dedicato alla ricerca archeologica ad indirizzo metodologico conseguendo, nella stessa struttura, il dottorato in Archeologia. Dopo un’esperienza di ricerca presso il Consiglio Superiore della Ricerca Scientifica spagnolo con sede a Barcellona, è rientrato in Italia dove ha approfondito le conoscenze in larga parte acquisite in Inghilterra nell’ambito di un postdoc presso il Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali focalizzandosi soprattutto sugli aspetti biologico-genetici e, in particolare, sulla biologia delle popolazioni. Da qui l’idea di avviare un lavoro sui processi di coevoluzione tra elementi culturali e biologico-genetici.