Dear You e Apri: tornano le lettere nell’era della pandemia

Due proposte culturali si impongono nel panorama artistico bolognese: l’arte entra nelle case attraverso la cassetta delle lettere. L’arteterapeuta Sassone: «Con la scrittura si può rielaborare la propria storia»

 

Di Medea Calzana

 

In qualche scatola, nelle cartolerie, è possibile trovare ancora delle parure di carta da lettere. Poche, sparute, disarmate davanti l’avanzare della tecnologia. «Ormai nessuno scrive più lettere»: lo dicono, melanconici, tutti i cartolai che vedono in chi chiede della bella carta per scrivere a mano un coraggioso guerriero o guerriera armata di penna che decide di combattere l’ineluttabile.

Ma è davvero così? Due esperienze bolognesi, nate proprio nei mesi di restrizioni tra la prima e la seconda ondata di Coronavirus sembrano il segno che qualcosa stia cambiando.

Il Museo di arte moderna (MAMbo) con la mostra epistolare Dear You e il fumettista Lorenzo Ghetti con il progetto di racconti per lettera, “Apri”, hanno arricchito la scena artistica bolognese, profondamente provata dalle chiusure dei musei, dei teatri e dei cinema, con un format simile. L’idea è che se il pubblico non può spostarsi, allora è l’arte che deve arrivare direttamente a casa. Come? Attraverso le lettere imbucate nella cassetta della posta.

Con Dear You, l’iniziativa del MAMbo, «il museo entra a casa tua. Non attraverso la presenza virtuale del digitale. Ma entra fisicamente. Il progetto, curato da Caterina Molteni, consiste di sei interventi di artisti internazionali, le cui opere sono concepite come poesie, brevi racconti, opere in forma di lettera – scrive il presidente di Istituzione Bologna Musei Roberto Grandi –. Grazie a Dear You le sei opere d’arte entrano nelle case recuperando una modalità di veicolazione analogica, lenta e che sospende l’agire convulso di questi tempi di call continue. Entrano con un rito che per decenni ha accompagnato il nostro rapporto con il mondo. Il suono del campanello e una voce che dice: “Posta in buca”. Per tanti è un gesto emotivamente forte, con venature nostalgiche». 

E proprio in questi giorni sono arrivate le prime buste per chi si è abbonato: ben 1211 persone. Un numero che è andato oltre le più rosee aspettative: tra i partecipanti, 1099 sono residenti in Italia, mentre 112 riceveranno la loro corrispondenza all’estero, in 19 diversi Paesi: Austria, Australia, Belgio, Canada, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Norvegia, Olanda, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Singapore, Spagna, Svizzera, Turchia, USA, Vietnam.

 

La pandemia ha reso più rarefatti i contatti, rendendo molto importanti tutti quegli strumenti per mantenere le relazioni. Digitali, soprattutto, perché sono efficienti, ma stanno tornando anche modalità “antiche” di comunicazione. Ecco che quindi non è un caso che anche l’iniziativa “Apri”, curata dal fumettista Lorenzo Ghetti, ex studente dell’Accademia di Belle arti di Bologna, sia nata proprio durante il lockdown.

Se il digitale ci è venuto moltissimo in aiuto, grazie alla sua efficienza, è anche vero che gli schermi ci hanno fatto sentire tutti i loro limiti. Videochiamate, didattica a distanza, aperitivi su mostre digitali, solo per fare qualche esempio. E guai se queste possibilità non ci fossero. Ma è anche vero che, senza farci trascinare dalla retorica del “ma gli abbracci sono un’altra cosa”, ci siamo presto resi conto che i rapporti digitali colmano solo superficialmente il nostro bisogno di contatto.

“Apri” è un progetto di racconti per corrispondenza: ogni mese agli abbonati arriva una busta con un racconto in forma epistolare, accompagnato da fotografie, biglietti e cartoline che sono parte del racconto stesso. Autori e autrici cambiano per ogni numero, così come tematiche, epoche e atmosfere. Ogni racconto è autoconclusivo e slegato dagli invii precedenti e successivi. Per aderire bisogna andare sul sito www.apri.website: è possibile sottoscrivere diversi tipi di abbonamento da tre, sei o dodici mesi e il prezzo va dai 30 euro, per la formula più breve, fino ai 96 euro per quella annuale.

«Abbiamo scelto di chiamarlo “Apri” perché volevamo sottolineare il gusto di ricevere qualcosa il cui contenuto è ignoto e solo strappando l’involucro della lettera si saprà cosa c’è dentro. È l’effetto sorpresa, il piacere della curiosità», spiega il curatore Ghetti. «Magari in molti hanno perso l’abitudine di scrivere lettere, ma sappiamo che a tantissimi piace ricevere qualcosa, come i pacchi Amazon, a volte anche mandandoseli da soli». È proprio il gusto di scartare, di aprire e vedere il contenuto e di sentirsi “pensati” che attira chi ha aderito all’iniziativa, come chi decide di comprare per corrispondenza. Complice anche la chiusura dei negozi, gli acquisti sul colosso di e-commerce sono schizzati alle stelle ed è proprio di pochi giorni fa lo sciopero nazionale dei lavoratori che pretendono condizioni d’impiego migliori. Ma l’attesa e poi la soddisfazione dell’aprire, quasi un piacere erotico, sembrano prevalere rispetto alle questioni etiche e di diritto del lavoro.

Allo stesso modo, nonostante abbiamo mezzi più veloci per comunicare, ci è rimasto la gioia di ricevere. Con la lettera possiamo ricreare quel piacere che è anche materiale: grazie alla possibilità di toccare la carta e vedere anche la grafia di chi l’ha scritta, fa sentire molto più vicini rispetto ad una efficiente quanto fredda e-mail.

Inoltre «grazie alla possibilità di inserire nella busta un fiore, un ritaglio di giornale, qualcosa di “vivo”, si può arricchire lo scritto con elementi simbolici, stimolando ancora di più l’immaginazione», afferma Mariella Sassone, arteterapeuta che collabora con la Nuova associazione europea per le Arti Terapie quale docente e coordinatrice dei corsi di formazione ed è presidente di Apisat, un’associazione professionale di arteterapeuti.

«Tramite la lettera si possono esprimere parti di sé che hanno bisogno di uscire: ecco che la presenza del destinatario in qualche modo riesce a ricreare quell’alterità di confronto simile alla terapia psicologica – continua l’arteterapeuta – La lettera sta sul piano della relazione. Diventa un luogo in cui ci si permette di dire, di raccontare, sempre in una dimensione di interazione affettiva. Anche se fosse una lettera ad un amico immaginario sarebbe comunque una possibilità di rielaborazione. Come dicevano i greci: “la cura del sé passa anche scrivendo”».

 

Ogni forma di scrittura, quindi, ha una potenzialità curativa perché diventa un momento di analisi di sé. Non solo perché si possono descrivere determinati episodi della vita, magari particolarmente dolorosi, ma anche perché l’atto stesso di scrivere è utile per scaricare la tensione emotiva accumulata.

Esiste da secoli la pratica della scrittura come forma di autoterapia: cioè uno strumento per guardare dentro di sé e analizzare i propri vissuti e gestire le proprie emozioni. Non si sta parlando di terapia in senso stretto con un professionista della salute mentale e un setting specifico, ma la scrittura in forma privata è comunque interessante per il benessere psicologico.

 

«Nella scrittura come riparazione (e in particolare in quella che possiamo chiamare la “scrittura privata dell’Io”) agiscono soprattutto i meccanismi e le strategie del lavoro del lutto. Mi riferisco sia alle dinamiche di tipo immediatamente catartico-abreattivo collegate all’emergere dell’emozione che ai processi più lenti e graduali collegati a una vera e propria elaborazione psichica, che passa attraverso la ripetizione e il racconto di esperienze più o meno traumatiche», scrive Stefano Ferrari ex docente di Psicologia dell’arte all’Alma Mater e autore, tra gli altri, del libro «Scrittura come riparazione. Saggio su letteratura e psicoanalisi».

 

Per tradurre con parole più semplici: la scrittura agisce ad un primo livello come sfogo dell’energia dolorosa. Diventa quindi uno strumento che ci libera dalla tensione tramite la scarica motoria propria del gesto dello scrivere. In un secondo momento è anche una possibilità di rielaborazione: attraverso il ricordo di episodi dolorosi e magari traumatici è possibile, tramite l’abitudine, “sgonfiare” quell’esperienza.

James Pennebaker, sociologo considerato il fondatore della scrittura espressiva, ha scritto assieme a Joshua Smith: “Il potere della scrittura. Come mettere nero su bianco le proprie emozioni per migliorare l’equilibrio psico-fisico”. Secondo le ricerche sarebbero sufficienti 15/20 minuti al giorno di esercizio di scrittura per migliorare la salute fisica e mentale dei partecipanti per settimane, mesi, a volte anche per anni. In particolare, si è rilevato come la scrittura espressiva aiuti a gestire le emozioni e i risultati più consistenti sono stati ottenuti nel caso di problemi psicologici quali ansia, depressione e disturbo post-traumatico da stress.

 

«  Quando ripeti l’esperienza qualcosa decanta, in un certo senso il ricordo doloroso si assottiglia. Rielaborare il trauma è molto importante perché spesso si tende ad allontanarlo e a rimuoverlo, ma continua a farci soffrire. È invece essenziale affrontarlo e rimarginare la ferita dell’anima in modo che l’esperienza traumatica diventi emotivamente neutro, in modo da andare avanti nella propria vita in modo funzionale – afferma l’arteterapeuta Mariella Sassone – Alla fine di un processo di rielaborazione devo essere in grado di mettere a fuoco che sono qualcosa di diverso da quello che mi è successo e che c’è una nuova storia in serbo per me. La parola, quindi, è lo strumento principe che ha l’uomo per costruirsi e ricostruirsi».

Siamo, così, di fronte a un paradosso che la nostra psiche ci presenta: la sofferenza, in qualche misura, tende ad alleviarsi attraverso la sua ripetizione. «Si guarisce da un dolore solo a patto di sperimentarlo pienamente», ha detto Marcel Proust. La scrittura, dunque, può essere quello strumento con cui affrontare ciò che fino ad ora abbiamo tenuto in silenzio: grazie a lei possiamo tornare ad essere liberi.

 

 

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