Ernst Jünger e l’astrologia

Colui che si aggiunge

Ernst Jünger e l’astrologia

di Francesco Cattaneo.

Come accade in corrispondenza di ogni punto di svolta, anche al tornante tra un anno e l’altro siamo indotti a guardare indietro, riflettendo su quanto ci è occorso, e soprattutto a guardare avanti, pensando a quanto ci aspetta. Ma – questo è il problema – cosa ci aspetta? Nella nostra condizione di ospiti della Terra, noi conosciamo in modo imperfetto e profetizziamo in modo imperfetto. Così afferma Paolo di Tarso nella Prima lettera ai Corinzi (13, 9), e rafforza l’idea ricorrendo a un’immagine icastica: vediamo le cose «per speculum in aenigmate», «attraverso uno specchio, per enigmi» (13, 12). Il convertito Paolo aggiunge subito che un giorno, al momento del ricongiungimento con il Padre e della visione beata, le vedremo «facie ad faciem», «faccia a faccia». Si tratta, però, di una visione che qui e ora ci è indisponibile. Indisponibile, e nondimeno pervicacemente inseguita, pur nell’imperfezione, e in ultima analisi nel fallimento, del nostro sforzo. L’essere umano – l’animal metaphysicum ad avviso di Schopenhauer – avverte la costitutiva esigenza di interrogarsi sul senso della propria vita, della propria gioia come del proprio dolore, di interrogarsi sulle cose prime e sulle cose ultime – in altri termini, di esercitare, proprio nella precarietà e incertezza della sua condizione, quella che potremmo definire genericamente una visione ampia sull’esistenza. 

Immagine di copertina del libro “Al muro del tempo” di Ernst Jünger (1895 – 1998)

È a partire dalla suddetta esigenza che Ernst Jünger tenta di comprendere in qualche misura la radice dell’astrologia, e ciò che la rende, nel cuore di un’epoca di imperante demagificazione, ancora così ostinata e persistente. Jünger svolge tale riflessione in un’opera portentosa, An der Zeitmauer (Al muro del tempo, 1959, trad. it. A. La Rocca e A. Grieco, Adelphi, Milano 2000), che consta di due parti, intitolate la prima «Tempo misurabile e tempo del destino. Riflessioni di un non astrologo sull’astrologia» e la seconda «Al muro del tempo». Se la seconda parte dà al libro il suo titolo generale, ciò accade perché in essa viene esplorato un paesaggio nuovo – una diversa esperienza del tempo – che la prima parte si limita a scorgere come attraverso una finestra. In ciò risiede l’importanza specifica della prima parte: essa, nelle intenzioni dell’autore, deve fornire un «criterio di riferimento» (un orientamento preliminare) per quanto tentato nella seconda. E allora la domanda suona: in che modo l’astrologia diviene una finestra attraverso la quale affacciarsi su un diverso rapporto dell’uomo con il tempo?  

 

 

Per rispondere è necessario comprendere l’approccio di Jünger. È lui stesso a spiegarlo sin dalla premessa («Uccelli d’altri cieli»): «La stesura della prima parte coincide con l’inizio del 1957, e venne portata a termine in pochi giorni; particolarmente intenso, in questo periodo dell’anno, è il profluvio di interpretazioni e predizioni astrologiche. Spunto per la riflessione non furono però i contenuti di tali indicazioni, che nella loro abbondanza si annullano a vicenda. Quel che dava da pensare era piuttosto il loro presentarsi come fenomeni di massa» (p. 11). Jünger, in altri termini, non è interessato a soffermarsi sul contenuto delle interpretazioni e predizioni astrologiche (esse, nel loro moltiplicarsi, si smentiscono l’un l’altra e si rivelano dunque inconsistenti), ma sulla loro popolarità. Cosa le rende così seducenti e attraenti? Il punto decisivo, a suo avviso, è che gli esseri umani sentono il bisogno di spingersi oltre la dimensione storica, vale a dire la dimensione che sono loro stessi a produrre (e in cui si auto-producono), per affacciarsi su una dimensione metastorica. La storia umana qui subisce uno scacco: «Lo sguardo al cielo stellato non è solo istruttivo e tale da elevare l’animo: al tempo stesso palesa all’uomo i limiti del suo sapere e del suo potere. […] La visione delle stelle è quindi numinosa nel senso migliore del termine» (p. 23). Di quale sapere e potere parla Jünger? Per comprenderlo, è sufficiente discernere il contesto in cui si inserisce la diffusione dell’astrologia nelle sue forme più «popolari». Jünger precisa: «La rinascita delle idee e della prassi astrologica, che ha prodotto dopo la prima guerra mondiale una vasta bibliografia e che palesemente si va consolidando, è in tanto evento rimarchevole in quanto, al tempo stesso, l’organizzazione razionale della vita continua a progredire. Fra tutto ciò che noi realizziamo e perfezioniamo, in fatto di pianificazione, standardizzazione, automazione, comunicazioni, comfort, assicurazioni, e i principi astrologici vi è uno stridente contrasto. Ognuna delle innumerevoli ruote del nostro mondo della tecnica si muove, all’interno del tempo misurabile, come la ruota dell’orologio. A tutto ciò non si riallaccia alcuna combinazione che dell’uomo trascenda il progetto e le intenzioni» (p. 41). La dimensione storica, dunque, è quella che si dispiega a partire dal progetto e dalle intenzioni dell’uomo: è una dimensione rigorosamente antropologica. Essa è segnata sempre più da un approccio tecnico-astratto che si garantisce la massima efficacia attraverso il livellamento e l’appiattimento. L’uni-formazione, la riconduzione a standard, determina la trasformazione del mondo della vita in una galleria di specchi in cui l’uguale viene moltiplicato all’infinito. Ciò trova una peculiare conferma sul piano del rapporto con il tempo. Il tempo non è che una cornice, una successione misurabile di istanti costantemente identici l’uno all’altro. Nel dominio del livellamento e dell’appiattimento, il tempo subisce una inarrestabile accelerazione: l’esperienza è sostituita dalla fulmineità di operazioni automatiche, che trovano il proprio culmine nell’informatizzazione e nella digitalizzazione. Ma se questo mondo prodotto dall’uomo – questo mondo artificiale che è il risultato di una posizione e dunque si impone come integralmente

Ernst Jünger (1895 – 1998)

positivo – ha il vantaggio di una potenza enorme, esso, d’altra parte, si mostra sempre più spoglio di senso. L’incantesimo che esso esercita (o l’illusione che esso produce) consiste nell’indurre la convinzione che l’assenza di senso possa essere compensata, o surrogata, dalla potenza del calcolo – uno dei contrassegni più inequivocabili del nichilismo. Il piano antropologico, nella sua estremizzazione, tende a divenire autoreferenziale e come a fluttuare nel vuoto. Di qui l’esigenza di aprirsi uno spiraglio oltre quella che appare sempre più come una gabbia soffocante; l’esigenza, dunque, di «trascendere il progetto e le intenzioni». Ma tale trascendimento è possibile – così sembra suggerire Jünger – solo attraversando il passaggio stretto del negativo, del fallimento delle pianificazioni umane: è infatti nell’esperienza del dolore e della sofferenza, nell’esperienza della propria limitatezza e finitezza, che l’uomo può aprirsi a una dimensione cosmologica e riscoprire le radici più profonde della sua esistenza. Proprio in questo terreno l’astrologia affonda le sue radici; proprio qui essa – mediante le figure e i tipi dell’oroscopo – apporta il suo contributo. «Anche se tutti i suoi dati fossero falsi, il valore dell’astrologia continuerebbe a sussistere in quanto tentativo di scandagliare il mondo a una profondità che nessun pensiero, nessun telescopio potrà mai attingere» (p. 38). Nell’interesse per l’osservazione degli astri «si cela l’anelito a uscire dal tempo astratto che imprigiona l’uomo con mille lacci e lo opprime con un dominio vieppiù incontrastato». Il tempo misurabile, quantitativo e sempre uguale a se stesso (sempre ugualmente vuoto) viene scardinato in direzione di un tempo qualitativo e pieno. Se l’oroscopo è paragonabile a un orologio, esso è tuttavia l’orologio del destino: «Le ore si susseguono, ma sono diverse l’una dall’altra. Il quadrante dei nostri orologi meccanici è rigorosamente simmetrico: un intervallo è esattamente uguale all’altro. Per accentuare ancora di più l’uniformità il nostro secolo ha persino cominciato a eliminare le cifre dal quadrante. L’oroscopo, invece, è un’immagine, un simbolo dell’orologio cosmico. Ciò che in esso colpisce fin dal primo sguardo è l’irregolare disposizione dei segni, che ricorda non tanto il quadrante di un orologio meccanico quanto piuttosto le costellazioni del cielo notturno o la disposizione dei pezzi in una partita a scacchi. Finché esisterà l’uomo non verrà meno il desiderio di leggere quel che vi è scritto» (pp. 38-39). Ma come si legge quel che vi è scritto? Consideriamo, innanzitutto, i tre vantaggi che secondo Jünger l’astrologia presenta nella considerazione di ambiti metastorici: «Essa prende le mosse dalla dimensione massima possibile, dall’estensione dell’universo. Si attiene, inoltre, all’orologio più grande, e insieme più preciso, sul cui movimento si basa ogni unità di misura e ogni calcolo del tempo: il ciclo delle rivoluzioni cosmiche. Infine, dispone di un quadrante suddiviso in qualità che non frammenta il tempo in modo uniforme e monotono, ma sul quale le ore si susseguono, senza essere per questo uguali l’una all’altra, e immagini potenti, profondamente radicate, si danno vicendevolmente il cambio. Questa unione di ampiezza, precisione e pienezza fornisce il modello di una forma superiore di considerazione del tempo. Qualsiasi cronaca terrena ha qui non solo la propria origine, ma anche la propria misura costante» (p. 17). La visione astrologica è una visione ampia: per comprendere la Terra si rivolge al cosmo e per comprendere l’uomo guarda oltre l’orizzonte dell’umano. La visione astrologica è una visione precisa: il cosmo viene considerato nella periodicità e costanza delle sue rivoluzioni. Nell’accelerazione lineare del mondo tecnico-astratto, nella sua furia del dileguare, la visione precisa dell’astrologia chiama in causa ciò che, nella sua ciclicità, ritorna eternamente: essa rimedia alla «monocultura dinamica» posando «lo sguardo su un oggetto immobile» (p. 37). La visione astrologica, infine, è una visione piena. Qui sta il punto decisivo, che separa radicalmente l’astronomia dall’astrologia. L’astrologia, infatti, non ricorre a una dimostrazione, a una spiegazione o a una conoscenza. L’astrologia insiste su un livello diverso di esperienza: il disvelarsi della forma. Essa, infatti, interpreta figure e immagini. Non ha un approccio concettuale, ma tipologico. I segni dell’astrologia, spiega Jünger, «possiedono il loro periodo, si allontanano, ritornano e fissano il tempo in modi definiti e misurabili. Qui il giro della grande ruota viene visto ancora nel vecchio, familiare modo che infonde all’uomo il sentimento della sua centralità, di un’abitabile sicurezza. Sopra di sé egli ha ancora una volta celeste, ove ritornano i segni fissi e mobili in modo matematicamente calcolabile. Questa connessione tra una fuggevole data del destino e l’irremovibile corso dell’orologio cosmico conferisce all’astrologia la sua peculiare seduzione, che le ha permesso di sopravvivere a tutte le altre arti e pratiche mantiche. A ciò si accompagna l’interpretazione delle costellazioni, che richiede un’intelligenza profonda, non puramente logico-razionale» (pp. 22-23). Il cosmo abitabile e conoscibile dell’astrologia non si riduce al misurabile e al calcolabile, ma implica anche – se non soprattutto – un’intuizione sensibile, una capacità di interpretare segni. Le risorse più proprie dell’astrologia sono mitiche e simboliche, e gli strati cui conduce «sono diversi da quelli ove è possibile contentarsi delle dimostrazioni» (p. 39). La lettura delle costellazioni non può rimandare ad alcuna forma di fatalismo o di necessità meccanicistica, perché altrimenti l’astrologia si risolverebbe in una scienza esatta. Fino al paradosso per cui se le profezie e le previsioni dell’astrologo fossero riconosciute come «scientifiche», ciò sarebbe più a suo danno che a suo beneficio. Tale apparente «successo» (l’acquisizione di una patente di «scientificità») gioverebbe all’astrologo «tanto poco quanto agli scacchisti la scoperta dell’automa che gioca a scacchi» (p. 30). La scoperta dell’automa che gioca a scacchi, infatti, trasformerebbe gli scacchi in una mera prestazione tecnica, e la partita perfetta – l’unica partita che l’automa, selezionata una certa apertura, potrebbe giocare – finirebbe sempre in patta. Andrebbe così perduto, commenta Jünger, il «fascino del gioco»: «La peculiarità dell’incontro di due intelligenze, di due temperamenti e caratteri su un piano in cui vigono leggi precise. Verrebbe a mancare ciò che fa del gioco un torneo: l’attacco ardito, la difesa tenace, la dissimulazione astuta, l’assalto di sorpresa; la stessa vittoria non meriterebbe più questo nome» (p. 25). Anche l’astrologia per Jünger è un gioco nel senso precisato. In quanto esercizio di creatività, il gioco eccede la logica della potenza e così si sottrae al perfezionamento della tecnica. Il fortino artificiale al cui centro l’uomo si è rinchiuso appare improvvisamente una prigione: disertandolo, l’uomo si decentra e proprio così – paradossalmente – si espone, si apre alle sorgenti più profonde, numinose, della sua libertà; si strania fino a se stesso. È dalle medesime sorgenti che scaturisce il bisogno religioso, a cui l’astrologia è accostabile, per quanto non possa essere identificata con esso. «Sentirsi dire che le proprie azioni, le opere, gli incontri significano anche qualcosa d’altro rispetto a quanto comunemente si suppone; che in essi grandi forze si riflettono provvedendoli di senso; in breve, sapere che si possiede un destino – sentirsi dire tutto ciò è evidentemente un desiderio inestirpabile dell’uomo. Quanto più aumenta il giro d’affari, quanto più cresce l’attività, quanto più la vita assume un carattere metropolitano, tecnico-astratto, tanto più prepotente si manifesta tale desiderio. Ciò accade in modo particolare in tempi di crisi o addirittura di catastrofi, di fronte alle quali l’ottimismo della tecnica viene minacciato o crolla in pezzi. L’uomo sente allora di aver bisogno di un’interpretazione, di qualcosa che lo rimandi a forze esterne alla consueta circolazione. Per questo necessita di colui che si aggiunge» (p. 29). L’astrologo è appunto colui che si aggiunge, colui che fa da tramite con il «mondo invisibile» (p. 30). Il «mondo invisibile», infatti, è qualcosa cui apparteniamo, ma è anche qualcosa che, soprattutto nel regno dell’artificiale, ci risulta estraneo, quasi indecifrabile nei suoi affioramenti. Rispetto a questi segni ignoti e in-auditi c’è appunto bisogno di un interprete, di una figura che, in virtù del suo patrimonio di figure e immagini, ci aiuti a dar forma al nostro destino, a riconoscerne la cifra. Si tratta sempre di un tentativo imperfetto, che procede per speculum et in aenigmate, un tentativo alimentato da intuizione, sensibilità, immaginazione – le quali costituiscono potenze fondamentali della nostra vita, le uniche in grado di plasmare un destino. «Un destino calcolabile, misurabile, non sarebbe più un destino. Il destino può essere presagito, sentito, temuto, ma deve rimanere ignoto. In caso contrario, l’uomo condurrebbe la vita di un prigioniero che conosce l’ora della propria esecuzione» (p. 31). La controversia intorno a libertà e destino, scrive Jünger, «passa per tutti i livelli» e «mai trova soluzione» (p. 27). Non può trovare soluzione, saremmo tentati di concludere, perché un destino si dà solo a partire dalla libertà come messa in gioco esistenziale.

Il destino così inteso sottrae il singolo alla minaccia di appiattimento: «L’astrologo non perde mai di vista l’innata dignità dell’uomo, e non presta orecchio ad astratte formule di uguaglianza e libertà; è l’“essere-così” dell’uomo a fungere da presupposto. Egli ritiene che con il singolo individuo, e precisamente con ogni singolo individuo, nasca non solo una nuova immagine della specie, ma anche un nuovo mondo [e un nuovo tempo]. Perciò l’astrologo assegna all’individuo un rango superiore rispetto a quello che gli possono accordare il pensiero astratto, un’astratta regola distributiva» (p. 65). Nel suo insistere «sulla singolarità del destino e sull’innata ineguaglianza degli uomini», nel suo «combattere il livellamento», l’astrologia esibisce la sua profonda, inquietante inattualità rispetto a «due punti cardinali del mondo contemporaneo» (p. 59). «Possiamo prevedere – aggiunge Jünger – che in futuro lo scandalo di cui è la fonte sarà ancora maggiore». Il tempo pieno, il tempo qualitativo, è d’altra parte l’unico tempo in cui è possibile la felicità. Il tempo misurabile è un tempo che scappa via, evanescente, fantasmatico, privo di sostanza – mero trapassare. Nel suo ambito non si ha mai tempo. «L’uomo che non ha tempo – e questo è uno dei nostri tratti distintivi – è difficile che abbia felicità. Inevitabilmente gli si precludono grandi fonti e forze, come l’ozio, la fede, la bellezza dell’arte e della natura. Gli sfugge così quel che del lavoro è il coronamento, la benedizione, ossia il non-lavoro, e del sapere il completamento, il senso, ossia il non-sapere. Questo risulta di immediata evidenza nel lento declinare di ciò che chiamiamo cultura» (p. 55). L’aumento di potenza e di ricchezza si paga attraverso la consumazione di felicità.

Concludiamo con una delle osservazioni più illuminanti della prima parte del libro, una delle osservazioni che ne fornisce la chiave di lettura. Gli esseri umani, nota Jünger, sono maggiormente interessati a sapere cosa ne è (o ne sarà) della propria esistenza piuttosto che a percepire fino in fondo l’«autentica sostanza del destino, la quale conferisce a ogni cosa il suo vero significato». E prosegue così: «Il potere conta per l’uomo più della conoscenza, la ricchezza più del carattere, la lunghezza della vita più della sua sostanza, l’apparire più dell’essere, che è inalienabile. Anche per questo motivo coloro che hanno cercato di aiutare l’uomo a conoscere se stesso, coloro che volevano interpretarne l’essenza hanno sempre raccolto ingratitudine, mentre la gran calca era alle porte degli indovini» (pp. 23-24). Come emerge nitidamente, a Jünger l’astrologia non interessa per ciò che la maggioranza cerca in essa; gli interessa, invece, per la sua capacità di cogliere e testimoniare lo spessore dell’esistenza, e di farsene a suo modo interprete. Colui che si aggiunge è soprattutto colui che ci ricorda ciò che, nel nostro essere, è inalienabile; colui che, in tal modo, ci aiuta a intravedere una provenienza e una destinazione. Ci assegna un compito, una impronunciabile responsabilità, piuttosto che sollevarci da noi stessi con false certezze. Solo in questo senso l’astrologia trattata nella prima parte di An der Zeitmauer può fornire un criterio per la seconda parte del libro, vale a dire per attraversare il mistero del tempo e dei suoi punti di rottura – quel tempo delle cui opere, per riprendere la massima del poeta, l’eternità è innamorata. 

  

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