i³: Il Paese è bloccato. Intervista a Mario Comba, ordinario di diritto pubblico dell’Università di Torino
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Il Paese è bloccato? “E’ colpa della burocrazia”. L’Italia deve ripartire? “Occorre semplificare, a iniziare dagli appalti pubblici”. Burocrazia, semplificazione, appalti sono, non solo nella narrazione popolare, i tre dossier chiave su cui ruota anche in questa stagione, contrassegnata dalla pandemia, il dibattito per una riforma articolata che sappia ridare gambe a un’economia sprofondata nella crisi globale. Un dibattito in cui norme europee si intrecciano a quelle nazionali, in cui nuove prescrizioni si sovrappongono a vecchie, in un ginepraio di codici e codicilli e una superfetazione di procedure amministrative che hanno vanificato finora ogni tentativo di efficientamento del sistema. Intanto, una recente ricerca di Eurobarometro indica che per l’84% degli imprenditori italiani è proprio la complessità delle procedure amministrative il problema principale che frena crescita e produttività.
“E’ vero, la complessità della disciplina sugli appalti pubblici è ormai diventata un luogo comune ed è spesso accusata di essere la principale causa di tutti i mali dell’economia italiana”, dice Mario Comba, ordinario di diritto pubblico dell’Università di Torino, presidente della Scr Piemonte spa (la centrale di acquisti della regione) e dell’EHPPA (European Health Public Procurement Alliance), la prima associazione che riunisce le centrali pubbliche di acquisto in Europa per il settore sanitario. Comba ripercorre in questa intervista quasi 100 anni di normazione in materia di appalti (si parte con il regio decreto del 1923), un racconto che finisce per diventare lo specchio di un Paese. Da dove ripartire? “Dalla formazione, dalle competenze, dalla meritocrazia. E da un sano senso di responsabilità”, risponde Comba.
D. Ormai gli esperti di appalti che propongono “semplificazioni” sono diventati quasi più numerosi degli allenatori della nazionale. Ma perché la disciplina sugli appalti pubblici è così complicata?
R. Partiamo dall’inizio. Il Regio decreto del 1923, nel disciplinare l’amministrazione del patrimonio dello Stato, diceva che “i contratti dai quali derivi una spesa per lo Stato debbono essere preceduti da gare mediante pubblico incanto o licitazione privata, a giudizio discrezionale dell’amministrazione”, con possibilità per l’amministrazione, sempre con sua scelta discrezionale, di escludere dalla gara i soggetti che si fossero resi colpevoli di negligenza o malafede. Infine, un articolo successivo prevedeva che, se per particolari ed eccezionali circostanze non si potesse fare la gara, il contratto sarebbe potuto essere concluso a trattativa privata.
Tutto qui. Pochissimi articoli (se confrontati ai 220 dell’attuale codice dei contratti pubblici), che lasciano una grande discrezionalità alla Pubblica amministrazione. Lo scopo evidente è quello e solo quello di imporre all’amministrazione il perseguimento del risultato più conveniente, in termini economici e di qualità del prodotto.
D. E poi che succede?
Passa il tempo, e, dopo la guerra, la Costituzione del 1948 consolida lo Stato sociale. Aumentano in modo esponenziale gli interventi dello Stato e le conseguenti spese e, al tempo stesso, viene erosa la fiducia nella pubblica amministrazione, con conseguente diminuzione delle aree di sua completa discrezionalità e produzione di una legislazione di maggior dettaglio e complicazione. Ma lo scopo della normativa sugli appalti rimane sempre quello: effettuare l’acquisto più conveniente per lo Stato.
All’inizio degli anni ’70 la Comunità economica europea emana le prime direttive in materia di appalti di lavori pubblici: lo scopo però non è – né potrebbe esserlo, date le competenze della CEE – quello di costringere gli stati membri agli acquisti più convenienti, ma è quello di costringerli a rispettare la concorrenza e, in particolare, a non favorire le imprese nazionali nell’affidamento dei contratti pubblici.
D. Se c’è più concorrenza, ci dovrebbe anche essere maggiore convenienza dei contratti conclusi dallo Stato, o no?
R. Certo, in linea di principio è così, ma in pratica non sempre. Un esempio: se devo rifare il bagno di casa chiedo in giro agli amici se mi consigliano un idraulico, poi chiedo due o tre preventivi e infine scelgo quello che mi sembra il migliore, dopo di che, se sono soddisfatto, continuo ad affidare allo stesso idraulico i lavori e la manutenzione del mio impianto idrico. Ma se dovessi applicare le direttive europee – che si preoccupano solo della concorrenza – sarei obbligato ogni due o tre anni a rifare una gara per consentire a tutti gli altri idraulici di ottenere quell’incarico.
E così, a partire dagli anni ’70, alla normativa sugli appalti esistente si aggiunge quella di derivazione comunitaria, sempre più dettagliata, che persegue il fine solo parzialmente coincidente di tutelare la concorrenza. Si tratta di una situazione comune a tutti gli Stati membri della Comunità e poi dell’Unione, ma in Italia si assiste ad un fenomeno particolare.
D. Quale?
R. Quello del cosiddetto gold plating, detto anche over-regulation, che consiste nell’applicare le direttive europee in modo molto più severo di quanto sia effettivamente richiesto dalla direttiva stessa. In altre parole, con la giustificazione di applicare il diritto europeo (“ce lo chiede l’Europa…”) si inseriscono disposizioni che appesantiscono di molto il procedimento ma che non sono per nulla imposte dalle norme europee.
D. Mi fa un esempio?
R. Le direttive europee non impongono l’obbligo di verificare in capo all’appaltatore tutti i requisiti che sono invece richiesti dal codice appalti italiano (dalle false comunicazioni sociali al lavoro minorile, alla mancata denuncia di una estorsione subita), ma solo alcuni, relativi a condanne penali per reati nei confronti della Pubblica amministrazione. Altro esempio la minuziosa disciplina, in parte di origine giurisprudenziale, circa le modalità di nomina della commissione giudicatrice, oppure quella sulla ripartizione della documentazione di gara in tre buste diverse, o ancora sulla pubblicità delle sedute. Questo perché, a partire dagli anni ’90, la disciplina appalti viene “caricata” di un terzo obiettivo: oltre a quello originale – best value for money – e quello imposto dal diritto europeo – tutela della concorrenza – si aggiunge quello di combattere la corruzione ed ogni altra forma di violazione della normativa pubblicistica.
D. Venivamo dalle inchieste di Tangentopoli che avevano comportato una notevole sfiducia nei confronti dell’amministrazione pubblica.
R. La conseguenza è una ulteriore diminuzione delle aree di discrezionalità attraverso l’imposizione per legge di passaggi procedimentali sempre più minuziosi e dettagliati, nell’illusione che la maggiore regolamentazione avrebbe comportato un minore rischio di comportamenti deviati da parte dei pubblici funzionari. Ma alla disciplina degli appalti viene attribuito non solo un (ipertrofico) controllo sulla regolarità nell’attribuzione degli appalti stessi, bensì un più ampio compito di fungere da verifica di legalità di tutte le imprese che contrattano con la pubblica amministrazione, anche se non necessariamente connessa alla conclusione dell’appalto in questione. Da qui la necessità per la stazione appaltante di verificare – come ricordato in precedenza – per esempio anche l’assenza di false comunicazioni sociali, di condanne per lavoro minorile, di mancata denuncia per un’estorsione subita, del rispetto della disciplina sull’assunzione dei disabili. Tutte verifiche che costringono la stazione appaltante a lunghe e defatiganti procedure e che spesso generano complessi contenziosi. In proposito, è stato notato che l’Italia è l’unico paese europeo in cui l’Autorità competente sugli appalti pubblici è denominata Autorità Nazionale Anti Corruzione (ANAC).
D. Cosa sono gli appalti strategici?
R. A partire dalle direttive europee del 2004, che hanno dato origine al codice degli appalti italiano del 2006 (ora sostituito dal quello del 2016), è stata recepita a livello
legislativo la prassi, già avviata negli anni precedenti, di utilizzare gli appalti per perseguire altre policies pubbliche, attraverso i cd. “appalti strategici”. In particolare, la tutela dell’ambiente, oppure lo sviluppo della ricerca o ancora il miglioramento delle condizioni dei lavoratori, attraverso, rispettivamente i cosiddetti appalti verdi, appalti innovativi, appalti sociali. In questi casi, la pubblica amministrazione può decidere, per esempio, di sviluppare una politica a favore dell’ambiente non solo erogando contributi diretti alle imprese (che producono energia rinnovabile o che utilizzano macchinari meno inquinanti) ma anche favorendo l’attribuzione a tali imprese degli appalti pubblici, per esempio stabilendo che, nell’acquisto di autobus per il trasporto pubblico locale, venga dato un punteggio più alto all’impresa che si impegna ad utilizzare autobus più ecologici del livello minimo previsto dalla legge. E’ evidente che il perseguimento di obiettivi strategici tramite gli appalti può confliggere con gli altri obiettivi finora indicati, soprattutto con la ricerca del miglior rapporto qualità/prezzo (gli autobus meno inquinanti costano di più) e con la tutela della concorrenza (si pensi al caso in cui viene richiesta una particolare attrezzatura ambientale in possesso di una sola o di poche imprese, riducendo così la concorrenza) e dunque comporta l’attivazione di procedure ancora più sofisticate per risolvere tali potenziali contrasti.
D. Torniamo al punto di partenza: a cosa è dovuta l’estrema complessità dell’attuale normativa italiana sugli appalti pubblici?
R. A due generi di fattori. Il primo è di carattere culturale più che giuridico e consiste nella sfiducia del legislatore nei confronti della pubblica amministrazione, che si traduce nella moltiplicazione dei controlli anche attraverso la moltiplicazione delle competenze e l’imposizione di procedure estremamente dettagliate, con l’effetto, opposto a quello voluto, di provocare la “fuga dalla firma” dei pubblici funzionari, che temono interventi della Corte dei Conti ed incriminazioni per abuso d’ufficio. Inoltre, il persistente frazionamento di competenza e le complicazioni procedurali sono spesso facili scudi per fuggire dall’assunzione di responsabilità.
In ultima analisi, si induce il funzionario ad essere solamente preoccupato dal rispetto della procedura e non invece di perseguire l’interesse pubblico (donde la classica frase: “io seguo l’interpretazione più rigida possibile, blocco la procedura, poi lei faccia ricorso al TAR…”).
D. Quale la possibile soluzione?
R. Certamente è necessario valorizzare le grandi competenze presenti nella Pubblica amministrazione, spesso mortificate dall’assenza di meritocrazia; e a livello universitario e di educazione permanente favorire gli insegnamenti specialistici sugli appalti pubblici, da affrontare non solo in chiave giuridica ma anche economico-
aziendale e gestionale. Poi favorire la professionalizzazione delle competenze rafforzando la centralizzazione degli acquisti pubblici attraverso le centrali di committenza che, tra l’altro, favoriscono anche i controlli perché concentrati, secondo modelli assai diffusi in altri paesi europei.
D. E la seconda causa della complessità della materia?
R. La seconda è di carattere normativo. Preso atto della molteplicità di scopi attribuiti agli appalti pubblici, in parte derivanti dalla normativa europea (concorrenza), in parte da una scelta politica nazionale (verifica estesa di legalità; appalti strategici), si potrebbe almeno ridurre al minimo la regolamentazione pur nel rispetto di tali obiettivi. Occorre però fare attenzione alle tanto sbandierate semplificazioni della normativa appalti (l’omonimo decreto legge, in realtà, complica assai più che semplificare): il “ritorno” alle direttive europee, abbandonando il gold plating di cui è incrostato il nostro codice degli appalti, richiede un’operazione che non si può liquidare in pochi articoli, ma comporta uno studio approfondito ed una notevole competenza di diritto europeo e comparato (come è stato fatto per la proposta pubblicata sul sito www.Lettera150.it, alla sezione www.lettera150.it/2020/08/08/proposta-di-lettera150-modifica-dellart-183-del-codice-dei-contratti-pubblici/ ).
D. Gli altri paesi europei come si sono mossi? Chi potrebbe essere preso a modello?
R. Regno Unito e, seppure in minor misura, Germania, hanno deciso di applicare le direttive europee senza modificarle, apportando solo le diposizioni strettamente necessarie per la loro attuazione. La Francia ha da poco approvato un Code de la commande publique nel quale, dopo aver stabilito alcuni principi generali, lascia una notevole discrezionalità alla pubblica amministrazione, accompagnata dalla relativa responsabilità, che però è valutata più sui risultati che sul rispetto della procedura. La comparazione giuridica offre molti esempi, positivi e negativi, da cui trarre idee proficue.
Alessandra Ricciardi – giornalista “Italia Oggi”