i³: Parole. Intervista a Paola Mastrocola, Premio Campiello 2004

Il Covid ci ha lasciato in questi mesi tristi alcune parole che probabilmente resteranno nella storia, almeno personale degli individui, di questa stagione. Parole che andrebbero elaborate, soppesate, perché anche questa epidemia non sia soltanto una tragedia. Ne abbiamo parlato con Paola Mastrocola, insegnante e scrittrice.

“Prendiamo il lato buono di questa esperienza, rinunciamo per un po’ per esempio all’incontro che la vita universitaria vissuta comporta e riscopriamo la solitudine, lo stare fermi su un argomento, un pensiero, una pagina, una formula: è fondamentale, se si vuole creare qualcosa di originale”. E ancora: “Le nostre vite erano troppo piene. Di impegni, di gente…Vite affollate… Ora ci è dato di limitarci, di restringere. È un’opportunità grandiosa, mi pare”. E la speranza? “Sembra la parola più intrisa di retorica, appartiene ai buoni sentimenti, a quelle formule del “pensare positivo” e “andrà tutto bene” che hanno tormentato, e un po’ nauseato, i mesi passati. Eppure sperare è esattamente ciò che dovremmo fare adesso”.

D. Il Covid ha stravolto lo studio di milioni di ragazzi. Ecco, soffermiamoci sulla parola studio, studiare.

R. Studiare è innanzi tutto incontro. Relazione, avventura, sorpresa. Voglio dire che per studiare bene c’è bisogno di incontrare l’altro: il compagno, il gruppo, il professore. I libri arrivano dopo, o parallelamente, ma da soli non basterebbero. Andare a lezione è necessario, è vitale. Prima di tutto nel senso fisico di muoversi, spostarsi di luogo. Lo spostamento fa bene alla mente, e al cuore. Amplia lo spazio, toglie dalle angustie del proprio io. E poi la lezione, dal vivo: è col professore che avviene l’incontro più importante. Ascoltare le sue parole, il timbro di voce, osservare i gesti, i tic, la postura, l’espressione del volto, il modo di sorridere, di camminare … Imprimersi la sua figura nella mente, per farla agire anche in assenza. Perché ci si rapporta sempre a un professore, anche quando si studia da soli a casa, quando si ripete mentalmente un concetto o si viene illuminati da un’idea originale: è subito a lui che si desidera riferirla. O al compagno più vicino, al collega con cui si lavora e che si elegge a interlocutore. Studiare è sempre uno studiare per qualcuno, secondo me. È così anche per lo scrivere. Non si scrive e non si studia sciolti dal resto, sospesi nel vuoto, “assoluti”.

D. Che ricordi ha della sua vita da universitaria?

R. Quando facevo l’università passavo tutto il giorno fuori casa. Torino, Lettere, Palazzo Nuovo: dietro via Po e Piazza Vittorio, a due passi dal fiume. Uscivo al mattino e tornavo la sera, non solo per le lezioni e i seminari. Era per stare lì, in un’aula vuota, un bar, o su una panchina dell’atrio, a leggermi un libro, pensare, magari scrivere qualcosina se mi veniva. Poi passava sempre qualcuno, un compagno, un professore: e allora i pensieri e le letture diventavano colloquio, chiacchiera, scambio.

D. Ora vien chiesto agli studenti di rinunciare a tutto questo, di studiare da soli. Senza andare a lezione, senza incontrare nessuno.

R. È un sacrificio molto grande, di cui si parla poco. Si dice quanto soffrono i bambini delle elementari e i ragazzi delle medie e delle superiori, per la scuola a distanza. Dei giovani invece, i ventenni, gli universitari, si parla solo per la movida, i viaggi, le discoteche. Di quel che è diventato per loro lo studio non si dice nulla. Eppure gli anni dell’università sono fondamentali. Plasmano la giovinezza, finiscono di completare il disegno della persona che siamo.

D. Quindi, non resta che lo studio a casa.

R. Sì, resta lo studio a casa. Penso però che non si debba star lì a lamentarsi e far le vittime. È andata così, dunque mettiamoci una bella (temporanea) pietra su, alle lezioni in presenza, alla vita com’era.

Giova prendere il lato buono, e lo studio a casa è un lato molto buono. È altrettanto importante dell’incontro dal vivo, è la seconda fase dello studio: l’incontro con se stessi e con i libri. Fase centrale, insostituibile. Ma anche la più faticosa, meno gratificante, e quindi più sacrificabile e spesso trascurata. Ebbene, il lockdown potrebbe aiutare i giovani a recuperare proprio questa fase, a farne il centro della loro vita di studenti. Chiusura, solitudine, isolamento: tutti ingredienti meravigliosi per lo studio. Aiutano la concentrazione, e anche l’ossessività. Stare fermi, su un argomento, un pensiero, una pagina, una formula: è fondamentale, se si vuole creare qualcosa di originale.

D. Cosa resterà delle lezioni on line?

R. Le lezioni on line sono un ottimo surrogato. Se non ci fossero, i ragazzi vagolerebbero nel nulla. Ma sono un surrogato. Meglio che niente, proseguono idealmente l’incontro con l’altro, lo prolungano. Fanno sì che non si spezzi il filo tra professore e studente. E favoriscono la prefigurazione mentale dell’incontro vero, che a un certo punto tornerà a esistere. Ma in nessun modo le lezioni virtuali potranno sostituire le lezioni in presenza.

Non dobbiamo permettere alla tecnologia di prendere il sopravvento. Noi dobbiamo usarla, la tecnologia, chiederle aiuto quando siamo in difficoltà. Semmai prevedere qualche affiancamento, perché no? Potrebbero rimanere alcune lezioni on line, quelle particolarmente riuscite, per esempio: si potrebbero rivedere negli anni, tenere sullo sfondo, istituire una videoteca ideale. E tornare a lezione, questo sì, quanto prima!

D. Vorrei soffermarmi sulla solitudine: come cambia il rapporto con sé stessi e la relazione con gli altri? Veniamo da una socialità routinaria…

R. La solitudine è una condizione complessa. Siamo abituati a vederla come fonte di tristezza, angoscia. Ma può dare anche un’ebbrezza, direi quasi una felicità. Per lo studio può essere una grande alleata, in quanto sinonimo di libertà: da soli si studia liberi, svincolati da obblighi e prove competitive e stressanti. Si può studiare in pace, finalmente! Superando la compulsione degli esami, la macchina diabolica della valutazione continua, la corsa ai punteggi, la sindrome da esamificio. Ci si può dedicare con tranquillità anche ad altro, a ciò che più piace, prendere per strade sconosciute, leggere libri che nessuno ha imposto. Andare dove ci portano le nostre vere inclinazioni. Diventare un po’ autodidatta, ecco. Un tempo si usava. Montale per esempio è stato un grande autodidatta…

E poi, ha detto bene: “socialità routinaria”. Spesso vedere gli altri è una routine, un automatismo che non siamo più in grado di controllare. Tanti dei rapporti che intratteniamo sono superflui, a volte fasulli, solo formali. Spesso vediamo gli altri come riempitivo: ci riempiamo di gente perché abbiamo paura del vuoto.

Potremmo adesso sfidare quel vuoto, passare più tempo con noi stessi e vedere solo chi abbiamo davvero desiderio di vedere, coloro di cui sentiamo potentemente la mancanza. Potremmo anche accorgerci che stare con sé stessi è più piacevole che stare con gli altri, a volte.

D. Isolamento: come impegnare il tempo dello stare soli, il silenzio?

R. Mi verrebbe da dire: non impegniamolo affatto! Lasciamo che il tempo sia vuoto e il silenzio sia silenzio. Prendiamoci finalmente il lusso di essere liberi. Se il guaio della nostra vita precedente era l’eccesso degli impegni, bene, allora dis-impegniamoci! Proviamo l’ebbrezza del nulla davanti. Può essere un trauma, all’inizio. Ma è possibile che alla fine proveremo un sottile piacere…

L’ha detto in maniera incomparabile Kavafis, in una sua famosissima poesia:

“E se non puoi la vita che desideri

cerca almeno questo

per quanto sta in te: non sciuparla

nel troppo commercio con la gente

con troppe parole in un viavai frenetico.

Non sciuparla portandola in giro

in balìa del quotidiano

gioco balordo degli incontri

e degli inviti,

fino a farne una stucchevole estranea.”.

Le nostre vite erano troppo piene. Di impegni, di corsi, di palestre, di feste, di fiere, di viaggi. Di gente: parenti, amici, conoscenti, compagni, colleghi. Di voci, parole, rumori. Vite affollate, frastornanti: stucchevoli estranee. Ora ci è dato di limitarci, di restringere. È un’opportunità grandiosa, mi pare. Restando sulla parola studio, isolarsi per studiare mi sembrerebbe un gran lusso: anche per mesi, o per un anno. Andare sulla cima di una montagna, o su un’isola sperduta, o in un casolare in mezzo al nulla. E lì stare. Fermi, a studiare. Ma quando mai ci ricapita?

D. Opportunità: il Covid lo è stato? Ce lo sbandierano perché si può reiventare un lavoro, per la scoperta delle cose semplici. Eppure tanti hanno perso o perderanno il loro lavoro senza trovarne altri, ci sono i morti, i sorrisi coperti dalle mascherine, e i figli che non possono abbracciare i genitori anziani.

R. Confesso che la parola opportunità mi ha dato molto fastidio quando, soprattutto i primi mesi, la si associava euforicamente al virus. Sì, certo. Abbiamo scoperto il piacere di fare il pane in casa, coltivare i pomodori sul balcone, portare semplicemente il cane a passeggio. Siamo stati anche patetici, nelle nostre scoperte dell’acqua calda. E comunque è bello se saremo più semplici, più moderati, più sobri, anche più… studiosi! (Non so se lo abbiamo imparato, però! L’estate ha dimostrato che quasi di nulla riusciamo a fare a meno: non dei viaggi, delle feste, dello shopping, degli apericena, delle discoteche…).

Ma un virus è un virus. Una pandemia è una tragedia. Non parlerei mai di opportunità per una malattia, una valanga, uno tsunami. Non scherziamo! Il male esiste.

D. Si può reagire al male.

R. Certo, vedere il lato buono, adattarsi e far di necessità virtù. Far buon viso a cattivo gioco, ecco. Ma il gioco resta cattivo, anzi, terribile. Potremo reinventarci il lavoro, la scuola, le vacanze. Ma ci vorrà tempo, e fatica, e una colossale capacità di sovvertire le abitudini, i rituali, gli schematismi consolidati; nonché una notevole capacità di rinunciare: al benessere acquisito, ai consumi sfrenati, al divertimento. Dovremo acquisire uno spirito di sacrificio, e imparare l’arte del fare a meno. Dopodiché, che la nostra vita e il mondo risulteranno migliori è possibile. Anzi, è quello che io credo. Ma sono conti che potremo fare solo fra un bel po’ di anni.

D. Speranza: siamo capaci ancora di coltivarla?

R. Speranza sembra la parola più intrisa di retorica. Pertiene ai buoni sentimenti, a quelle formule del “pensare positivo” e “andrà tutto bene” che hanno tormentato, e un po’ nauseato, i mesi passati. Eppure sperare è esattamente ciò che dovremmo fare adesso.

Sperare, etimologicamente, vuol dire “tendere a una meta”. E questo è possibile, oggi. La meta è per definizione un luogo posto davanti. Sperare quindi ci proietta in avanti, permettendoci di accantonare l’oggi, dimenticarne temporaneamente il dolore, il disagio. Favoriamo tutte le parole col prefisso pro-, che vuol dire avanti: progettare, programmare, promuovere, produrre, proporre, prolungare, progredire… e soprattutto pro-crastinare: portare avanti il domani, splendido!

Alimentiamo il più possibile l’immaginazione, la visione. Dobbiamo diventare visionari. Guardare con la mente. E desiderare! Per poter sperare bisogna prima di tutto desiderare. Il desiderio è avvertire una mancanza che nel futuro diventerà un presente appagato. Dobbiamo abitare quel presente che ora è un futuro nebuloso, essere capaci di vederne la metamorfosi.

L’unico modo è lasciar crescere il desiderio, alimentarlo di continuo, gettare sempre nuova legna sul fuoco: anzi, pro-gettare!

D. Natale: anche il Natale ha un nuovo e diverso senso? Quale?

R. Raccoglimento. Se penso al Natale di quest’anno, mi vedo tante figurine raccolte, in disparte, solitarie ma unite in un unico luogo. Saremo tutti come i pastori del presepio, inginocchiati, con la testa china, le mani che si reggono al bastone. Sopra di loro la stella cometa, segnale di un mistero che ci governa, incomprensibile.

 

Alessandra Ricciardi – giornalista “Italia Oggi”

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