Il famoso violoncellista Dindo si prende troppe libertà stilistiche nel repertorio bachiano

Il critico musicale, prof. Giovanni Neri, curatore della nostra rubrica Kurvenal, ha assistito al concerto del grande violoncellista Enrico Dindo, tenutosi lo scorso otto novembre al Teatro Comunale di Ferrara. E anche stavolta ci stupisce con una recensione talmente chiara, scorrevole e musicale, da rapire anche i lettori che non capiscono nulla di violoncello…

di Giovanni Neri

Sono purtroppo rari i concerti di violoncello e ancor più rari quelli di violoncello solo. La cosa è dovuta a una rarefatta letteratura, a un minore interesse del pubblico rispetto al suo fratello minore di paganiniana memoria e a un minore numero di interpreti di grande livello. E questo è veramente cosa di cui rammaricarsi perché lo strumento, passato da solo accompagnamento da basso numerato fino alla metà del ‘700, ha vissuto fin dai tempi di Vivaldi  di vita propria. E – secondo il gusto di chi scrive – offre un suono di intensità umana e in molti casi struggente come quello dell’oboe.

Teatro Comunale di Bologna

Strumento difficilissimo con pagine di grande intensità e trascendentali difficoltà tecniche (uno per tutti: il concerto di Dvořák ) che ha però un repertorio solistico (ovvero senza accompagnamento) molto limitato. A parte fra i moderni  Kodály, Hindemith e pochi altri e alcuni compositori barocchi come Dall’Abaco, le cime più alte sono quelle raggiunte da J.S.Bach nelle 6 suites di cui non esiste un autografo ma solo trascrizioni e sulla cui paternità esiste una lunghissima diatriba (alcuni sostengono siano frutto di Anna Magdalena Bach). Di chi siano non importa nulla (come della paternità/esistenza di Omero): si tratta di composizioni di bellezza astrale e che richiedono per la loro esecuzione al contempo grande padronanza tecnica e raffinata sensibilità musicale.  Composte presumibilmente tra il 1717 e il 1723, periodo durante il quale Bach prestava servizio come maestro di cappella alla corte del Principe Leopold di Anhalt, sono scritte in sei differenti tonalità e sono composte da un Preludio, brano che apre ogni Suite, e a seguire da una sequenza di danze. Si è ipotizzato anche che fossero composizioni a scopo didattico visto che a partire dalla prima e arrivando alla sesta il grado di difficoltà tecnica cresce talché in alcuni casi la sesta viene talvolta eseguita su violoncello a 5 corde (oltre alle tradizionali corde di do-sol-re-la viene aggiunta anche una corda più acuta di mi).  Per chi fosse interessato, la quinta suite è stata composta per un violoncello con la corda di ‘la’ abbassata di un tono (come anche nella sonata di Kodály) per semplificare tecnicamente in molti passaggi l’esecuzione. E’ la caratteristica anche di altri strumenti (specialmente a fiato come il corno inglese, quello usato da Wagner all’inizio del terzo atto del Tristan un Isolde) indicati come strumenti ‘traspositori’: nel violoncello l’esecutore per suonare un ‘do’ sulla prima corda deve impostare le dita per un ‘re’. La prassi di abbassare la corda di ‘la’ si ritrova anche in parecchi compositori successivi a Bach.

In Italia abbiamo la fortuna di avere violoncellisti di grande livello e fra questi M. Brunello e E. Dindo: quest’ultimo protagonista del concerto tenutosi l’otto novembre scorso al Teatro Comunale di Ferrara. Avevo avuto modo di ascoltare Dindo nel repertorio romantico con risultati eccezionali. Non mi ha convinto invece nel programma bachiano. Ovviamente nulla da eccepire dal punto di vista tecnico ma dal punto di vista dello stile mi sembra che si prenda libertà eccessive. Ovviamente non esiste un manuale dello ‘stile bachiano’ ma certe intemperanze ritmiche tolgono qualcosa alla grandiosità dell’architettura. Mi riferisco – ad esempio – alla prassi, specialmente nelle sarabande o nei preludi, di accelerare le semicrome e poi rilassare in seguito il ritmo dando luogo a uno squilibrio del tutto innecessario e che nulla aggiunge dal punto di vista interpretativo.  Così come l’eccessiva velocità di alcune danze che trasformano un tempo sì ‘allegro’ ma che non può essere ridotto a una sorta di studio anche perché ne soffre il suono necessariamente impoverito. Naturalmente stiamo parlando di un interprete al top del ranking internazionale ma credo che potrebbe offrire molto di più. Se si è interessati a meglio comprendere il significato del mio commento suggerisco di ascoltare l’interpretazione delle stesse suites da parte di Mischa Maisky o YoYo Ma che ti trovano su Youtube. Un buon successo di un pubblico molto rarefatto (se ne poteva dubitare?) per un concerto certamente da intenditori premiato  con due bis: il preludio della prima suite e la sarabanda della sesta.

Leggi anche il blog Kurvenal dell’autore Giovanni Neri

E-mail: giovanni.neri@unibo.it

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