Imparare a essere se stessi: l’educazione secondo Humboldt
Il libro di Marina Lalatta Costerbosa, Il bambino come nemico, invita a riscoprire la lezione del filosofo e politico illuminista, che si batté contro ogni forma di educazione oppressiva e avvertì il pericolo di una istruzione pubblica che creasse uniformità invece che autonomia
di Marcello Conti
Anche quest’anno è suonata l’ultima campanella. È finita anche questa annata scolastica così anomala, con tutte le polemiche su Dad, diritto allo studio negato o messo tra parentesi, socialità mancata.
Ma ovviamente i problemi (e le polemiche) non sono iniziati (e tantomeno finiranno) con il Covid. Da sempre si parla della scuola, di quello che non va, che andrebbe aggiustato o completamente rivisto. Da sempre si chiedono riforme che poi, quando arrivano, puntualmente sono giudicate deludenti, insufficienti, sbagliate.
Il tema resta di quelli che scaldano, vuoi perché è una cosa che ci riguarda tutti (tutti abbiamo avuto a che fare con la scuola per una parte considerevole della nostra vita, se siamo genitori o insegnanti ne abbiamo ancora a che fare quotidianamente) o perché pochi sono così miopi da non vedere quanto l’argomento sia cruciale per la società tutta (ma anche per il destino individuale di chi nella società ci vive).
Ma se volessimo allontanarci dal dibattito contemporaneo e dall’amena terminologia (Pof, Lim, Bes, Neet, Cfu e via dicendo) che lo accompagna, rivolgendoci al passato non mancheremmo di trovare pensatori di spessore che si sono prodigati sulla questione dell’istruzione. Tra i vecchi maestri che varrebbe la pena di rispolverare un posto lo occupa sicuramente Wilhelm von Humboldt.

Filosofo, linguista e uomo politico prussiano vissuto tra il 1767 e il 1835, Humboldt elaborò un preciso ideale educativo che è al centro del bel libro di Marina Lalatta Costerbosa, professoressa di Filosofia del Diritto all’Alma Mater, Il bambino come nemico. L’eccezione humboldtiana, recentemente pubblicato da DeriveApprodi.
Grande amico di Friedrich Schiller, fra gli ispiratori di John Stuart Mill, fondatore della più antica università berlinese che ancora oggi porta il suo nome, tra le altre cose Humboldt fu ministro dell’Istruzione della Prussia tra il 1809 e il 1810. In tale veste portò avanti una profonda riforma del sistema scolastico. Riforma che aveva come principio guida l’idea di mettere al centro l’alunno, inteso come persona che si deve formare nel suo carattere e nella sua autonomia.
Questo ideale di formazione, di Bildung, era perfettamente coerente con tutto il sistema di pensiero di Humboldt, che nel libro Lalatta Costerbosa riassume efficacemente. E cuore del pensiero humboldtiano è «un’immagine dell’uomo positiva, volta alla valorizzazione della diversità individuale e avversa a ogni costituzione che voglia uniformare, appiattendo le singole personalità». Il punto fondamentale è sempre l’attenzione verso la libertà, l’autonomia, la specificità dell’individuo. Perché se – sono parole dello stesso Humboldt – «la pienezza dell’umanità scaturisce solo dalla pura forza dei diversi individui», allora dalla diversità, dalla singolarità degli individui dipende il senso stesso di umanità. E così buona parte dell’attività di Humboldt, sia come pensatore che come politico, è impegnata nella difesa delle diversità specifiche delle persone. Perché, secondo questa visione, nulla è più odioso e disumano di ciò che produce o impone uniformità, sia fatto pure in nome della razionalità o di ragioni pubbliche. E qui si inserisce la nota anarchica del pensiero humboldtiano, perché l’elemento uniformatore per eccellenza è lo Stato, che nella visione di Humboldt non può che essere un male necessario. In quanto tale va limitato, monitorato attentamente affinché non vada oltre le sue funzioni minime, cioè garantire la sicurezza interna ed esterna. Ogni superamento di questi confini costituisce un’ingerenza in quel valore supremo che è la libertà individuale, e quindi rappresenta una forma di dispotismo. E la forma di dispotismo più insidiosa da cui guardarsi è quella “paternalista”, cioè un’autorità centrale che, in nome di un presunto bene comune, «interviene tentando di condizionare i costumi e la morale condivisa». Insomma lo stato che pretende di diventare «un istituto morale».
Date queste premesse si capisce come un potenziale pericoloso esempio di “dispotismo paternalista”, nonché fonte di uniformità, potesse essere rappresentato dall’istruzione pubblica. Un “pericolo necessario”, anche in questo caso, secondo Humboldt, persuaso che in una società perfetta l’educazione non sarebbe mai appannaggio dello Stato, ma che nella realtà concreta della sua epoca l’istruzione pubblica fosse l’unica soluzione possibile per combattere le disuguaglianze. Da qui l’impegno per una riforma scolastica che fosse, innanzitutto, antiautoritaria e ugualitaria.
Siamo quindi arrivati al punto fondamentale del libro: l’educazione secondo Humboldt. Ed è qui che si colloca quella che l’autrice chiama «l’eccezione humboldtiana». Perché l’ideale di Bildung del pensatore prussiano rappresenta una rottura radicale anche rispetto alle idee pedagogiche dominanti in seno alla cultura dei lumi.

Anche se è proprio con l’Illuminismo, infatti, che si arriva al riconoscimento della specificità del bambino, questo non significa che gli venga attribuito lo status di persona. Per i pedagoghi illuministi l’infanzia è una condizione di mancanza a cui porre rimedio, il bambino qualcosa che va plasmato, incivilito. Nella maggior parte degli scritti pedagogici prevale la concezione dell’educazione come una guerra e quindi del bambino come un nemico, un selvaggio da addomesticare a forza. Una formazione, dunque, in cui le pressioni psicologiche sono la norma, sostanzialmente repressiva, intimamente violenta, che non porta alla valorizzazione del carattere individuale, ma al controllo e quindi all’uniformità.
Nulla di più lontano da Humboldt. Per lui, innanzitutto, il bambino è una persona, diversa dall’adulto, ma non per questo inferiore o incompleta (per l’appunto scrive che «in ogni età esiste l’uomo nella sua interezza»). Portatore anch’esso, dunque, di una propria specificità che non deve essere combattuta o mortificata, ma semmai assecondata affinché ciascuno trovi la propria strada.
Perché se la diversità e la pluralità sono la ricchezza dell’umanità, allora l’educazione deve essere un processo di rafforzamento della soggettività, dell’originalità, dell’autonomia. Voler, invece, plasmare l’alunno per conformarlo a un certo modello costruito e pianificato a priori è sempre un atto di violenza. La vera attività dell’educatore non consiste nel plasmare, ma nel prendersi cura, andare incontro alle esigenze del singolo affinché siano garantite le condizioni in cui possa sviluppare le proprie forze individuali.
Lezione preziosa di Humboldt, che potrebbe tornare utile ancora oggi, nel così diffuso desiderio di vedere, o almeno immaginare, una scuola diversa: forse invece di perdersi nelle infinite discussioni tecniche su programmi, materie e sistemi di valutazione, i punti su cui varrebbe la pena di riflettere, prima del “cosa insegnare”, sarebbero il “come” e, soprattutto, l’“a chi”. Che poi significa soltanto guardare in faccia i destinatari dell’educazione che con tanta puntigliosità si vorrebbe programmare e chiedersi: cosa vogliamo che diventino? Individui autonomi o cos’altro? E come pensiamo si possa arricchire la società? Producendo diversità e pluralità oppure uniformità e standardizzazione?
Il libro di Lalatta Costerbosa merita di essere letto già solo per tornare a porsi queste domande. Per quanto riguarda le risposte, certo non aveva dubbi Wilhelm von Humboldt, questo ottimista guidato dalla convinzione che gli uomini diano il meglio quando, semplicemente, gli è permesso essere se stessi. E che l’educazione potesse essere la strada per diventarlo pienamente.