Intervista all’artista Leonardo Pivi
Un immaginario fantastico ricco di memorie antiche che riaffiorano, opere dal forte impatto emotivo ed espressivo, una cura minuziosa e paziente per i dettagli, impercettibili fragilità e stati d’animo messi in evidenza, la materia che diventa protagonista. Questo e molto altro è il lavoro artistico di Leonardo Pivi.
Nato a Cesena nel 1965, formatosi artisticamente prima a Ravenna, poi all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, vive e lavora a Riccione ed è docente di Tecniche del Mosaico presso l’accademia di Ravenna e Tecniche della Decorazione presso l’accademia di Foggia. La critica lo ha definito artista poliedrico ed eclettico per avere studiato in profondità e aver fatto proprie con estrema maestria la scultura, la pittura e perfino il mosaico, tecniche antiche cha ha ripreso in modo innovativo.
Scandagliando con ironia le contraddizioni della nostra società, nelle sue opere Pivi esprime strutturalmente le ambivalenze dell’uomo contemporaneo attraverso opzioni contrapposte e dilemmatiche, come a volerci indicare che la conciliazione e la sintesi sono possibili attraverso l’arte e la sua bellezza. Moderno e antico, sacro e profano, eterno ed effimero, banale ed eccezionale, povero e prezioso, organico e inorganico, naturale e artificiale sono solo alcune delle molteplici tensioni che attraversano il suo lavoro e che ci forniscono, al tempo stesso, chiavi di lettura per decifrarlo.
Nell’intervista, ripercorrendo alcuni momenti salienti del suo percorso formativo, Pivi esprime la sua visione artistica attraverso alcune delle sue più recenti produzioni e i suoi progetti futuri che vanno oltre alle dinamiche espositive, in una ricerca che sembra non esaurirsi mai.
La critica ti ha definito un artista eclettico per l’uso sapiente di diversi linguaggi. Tu come ti definiresti?
Non è mai facile definirsi. Mi piace guardare il mondo con gli occhi dell’arte, immaginare, avere fantasia nei confronti di ciò che osservo. Da sempre l’interesse verso i diversi linguaggi, le grammatiche profonde radicate nella storia, mi ha portato ad andare oltre i miei ambiti di studio e formazione. Con l’analisi ho cercato di farli miei e interagire con essi. Mi ritrovo nella definizione che di me hanno dato diversi critici: un’artista che ama esprimersi tra le due e le tre dimensioni, passando dalla bidimensionalità alla tridimensionalità. Credo fermamente ci siano forti collegamenti tra un linguaggio e un altro: nella scultura c’è sempre un po’ di pittura e nella pittura c’è sempre un po’ di mosaico, il mosaico mi dà soluzioni che mi fanno pensare alla pittura e il contrario, le sculture antiche erano anche dipinte. Per questo ho sempre cercato di avere una visione più allargata. Solitamente è l’idea concettuale a sorreggere il mio lavoro e a determinare le mie scelte.
Rimanendo in ambito formativo, chi consideri i tuoi maestri?
Maestro è un concetto che si allarga. Ci sono stati maestri di vita e di insegnamento. Ho bellissimi ricordi già a partire dalle scuole elementari dove ricordo ci portavano spesso fuori a disegnare en plein air. Anche all’istituto d’arte diversi insegnanti sono stati per me punto di riferimento, con alcuni ho avuto un rapporto straordinario tutt’ora mantenuto. Del percorso in accademia ricordo con entusiasmo Vittorio d’Augusta e naturalmente Concetto Pozzati tra coloro che mi hanno trasmesso l’amore e la passione per l’arte. Anche i miei compagni di viaggio, con cui ho ancora relazioni di scambio e molti amici artisti, sono stati e sono dei maestri. Con diversi di loro ho vissuto insieme a Bologna ai tempi di Roberto Daolio, un critico straordinario che ha avuto Bologna in quegli anni, e che, insieme a Renato Barilli, ci ha seguito nelle nostre prime personali alla Galleria Neon. E naturalmente la mia compagna di vita e di avventure Mariacristina Serafini che cura larga parte dei miei cataloghi.

E nel campo dell’arte?
Amo particolarmente tutto ciò che porta agli espressionisti: da Goya a Munch, da Rembrandt a Bacon, quel mondo tenebroso anche scientifico e naturalmente Leonardo da Vinci. Tutti maestri che, come dice la parola, eccellevano per le loro maestrie in un ambito specifico. Nell’ambito della scultura Bernini, Canova ma anche altri. Artisti molto diversi e distanti, geni dell’arte, che ho sempre cercato di analizzare per motivi filosofici e per le tecniche per cui si sono distinti.
Nel tuo lavoro hai recuperato un linguaggio antico, il mosaico, riprendendolo in chiave contemporanea. Avere abitato per tanti anni a Ravenna quanto ha influito sul tuo percorso?
Ravenna, capitale bizantina, è una città straordinaria, qui ho imparato a conoscere il mosaico. Nei primi anni dell’accademia svolgevo anche un percorso di restauro, in collaborazione con un laboratorio. Sono stati anni decisivi per la mia formazione e per l’ecletticità del mio lavoro: scoprire materiali che potevano essere usati nel lapideo, fare il ritocco pittorico negli affreschi oppure mettere mano ad un dipinto ad olio, richiedevano una professionalità allargata. In seguito ho dovuto scegliere tra il restauratore o l’artista: ho preso la seconda strada perché mi rendeva più felice. Uscito dall’accademia di Bologna, dopo tanti anni di formazione focalizzati sulla pittura, mi sono allontanato molto dal mosaico. Alcuni anni dopo, ho ripreso a guardarlo con occhi nuovi durante un primo corso di insegnamento in tecniche artistiche che mi fu affidato in un istituto professionale di Ravenna. Negli anni Novanta ho ricominciato a fare mosaici e da allora non ho più smesso.
Quali sono per te le potenzialità del mosaico come linguaggio artistico?
Il mosaico che più mi attrae è legato al mondo romano e bizantino, era il modo di narrare dell’antichità. Nei miei lavori sui rotocalchi mi piaceva l’idea di metterlo in relazione al nostro mondo pop, trasferendo immaginari attuali in questo mondo antico. Fino a quel momento le mie suggestioni provenivano da un mondo fantastico e onirico. Con il mosaico ho iniziato a guardare un immaginario che non mi apparteneva. Prima tra i maestri non ho ricordato Odille Redon o Scipione a cui guardavo in quegli anni. Da qui nascevano figure in bilico tra il sogno, il grottesco e la caricatura. In seguito, ho iniziato a guardare icone e personaggi della contemporaneità al di fuori dai loro contesti, fermandole nel tempo, proprio attraverso il mosaico.

A proposito di mosaico, ho apprezzato molto uno dei tuoi ultimi lavori 30 mila Anubis Serpent Swan, un lavoro a quattro mani nato dalla collaborazione con Francesco Cavaliere. Qual è la sua origine?
Il lavoro fu realizzato per la Gluck50. In quell’occasione siamo riusciti ad avere in residenza, per un mese, il famosissimo mosaico di Anubi, conservato nel Museo della Città di Rimini. Lo abbiamo studiato approfonditamente e abbiamo creato una performance davanti all’opera antica, servendoci anche di una scultura-armatura che ha fatto parte del nostro racconto. Da quell’esperienza, di studio e di racconto, è nata una nostra immagine musiva. Quanto realizzato non è una copia o una riproduzione, ma una sorta di prototipo ispirato anche ad alcuni testi storici che lasciavano margini di mistero e interpretazione del mosaico originale. In questo spazio l’immaginazione ha aperto alla creatività, da qui la nostra re-interpretazione artistica con un progetto innovativo in cui abbiamo mantenuto l’aspetto narrativo del mosaico raccontando una nuova storia.
Com’è nata la collaborazione con Francesco Cavaliere?
Ho conosciuto Francesco Cavaliere durante una sua performance a Milano, da subito abbiamo trovato intesa e affinità su alcuni linguaggi, soprattutto sul mosaico, condividendo immagini e riflessioni del mondo non solo antico. E’ nato così il nostro primo progetto, esposto in occasione di Manifesta 2018 a Palermo: un evento curato da Luca Trevisani che si svolgeva al Grand Hotel des Palmes. In questo contesto intrigante, abbiamo portato dei mosaici da viaggio e da lettura. Francesco ha letto questi mosaici improvvisando una storia nel corso di una performance. I mosaici sono stati pensati e realizzati a quattro mani e anche i racconti erano frutto di una mescolanza di suggestioni e conoscenze. In quell’occasione ci siamo accorti che vi erano due prospettive che si integravano perfettamente, da lì ha preso poi forma l’esperienza per la Gluck50. Da allora, pur vivendo in città diverse, lavoriamo ancora insieme su alcuni progetti che stiamo portando a termine a breve.
Le tue produzioni trasmettono un senso di fisicità e vitalità che va al di là della rappresentazione. Che rapporto hai con la materia, che significato ha per te?
Io mi occupo di superfici e una superficie può essere opaca, sbiancata, sporca, venata, vetrosa, preziosa, manomessa, viva, organica, calpestabile, screpolata…potrei andare avanti per ore. Con l’avvento della cryptoart, stiamo assistendo alla dematerializzazione dell’arte: l’arte vive sempre più per immagini e sta perdendo concretezza e fisicità, le opere sono diventate quasi prodotti esclusivamente elettronici. Nell’arte invece tutti gli organi sensoriali devono essere coinvolti: la vista, il tatto, l’udito, l’olfatto. Per uno sculture è fondamentale ascoltarsi mentre lavora. E’ importante che anche le nuove generazioni si confrontino con la fisicità dell’arte. Possiamo raccontare loro che Rembrandt è stato un grande maestro, ma per capirlo fino in fondo è necessario stare davanti all’opera: un grande capolavoro vive di quello che ci ha messo l’artista, ma anche di quello che sappiamo recepire. Se una di queste dimensioni viene meno, salta tutto. Perdere i segreti professionali, le maestranze, l’enorme universo sviluppato nel corso di secoli è un rischio e fare percorsi al contrario non è facile. Leggo positivamente il fatto che molti giovani in accademia stanno iniziando a comprendere la natura del problema e intraprendono percorsi controcorrente che danno la possibilità di imparare ancora attraverso il sapere delle mani.

Rimanendo in tema di fisicità le tue opere colpiscono anche per la scelta dei materiali. Tra queste ho apprezzato Busto d’uomo con cocorita esposta nella collettiva della scorsa estate EX4. Scelte stilistiche e contenutistiche che ritornano…
Negli ultimi anni il mio modo di approcciarmi alla scultura è cambiato molto: nei primi anni Novanta facevo sculture in cemento armato, gesso, legno, ho usato anche elementi naturali in tassidermia, ma quando il mondo è andato verso il silicone, l’iperrealismo, ho fatto una scelta controcorrente tornando verso i materiali classici come il marmo. Negli anni sono passato all’ibridazione, alla promiscuità, al mescolare, all’innestare, al far convivere elementi che provengono, nella loro origine, da situazioni completamente diverse: applicavo sulla scultura parti di mosaico, immagini stampate, materiali polimaterici che potessero dare più chiavi di lettura all’opera. In Busto d’uomo con cocorita il sacchetto diviene foulard, una radice fa da cappello, tutte queste possibilità di lettura sono diventate l’ingrediente fondamentale di questo ultimo lavoro che rimane una scultura. Questa logica vale anche per le opere a parete bidimensionali: anche il mosaico può essere interpretato come una scultura. Dove finisce la scultura, dove comincia il mosaico? Ecco, mi piace molto giocare su questi aspetti di depistaggio fuorviante.
Anche il tema della natura ritorna nelle opere sia nella scelta dei materiali sia nei contenuti, penso soprattutto agli ultimi lavori come Terra Bruciata…
Terra Bruciata era quella che facevano i contadini quando bruciavano le steppe di grano per arare i campi e dare nuova vita al terreno, è anche una strategia bellica ripresa nella seconda guerra mondiale e utilizzata al confine della Linea Gotica dove l’invasione dei tedeschi fece disastri, è anche il nome di un colore bellissimo che uso spesso nei miei quadri. L’elemento naturale nel mio lavoro c’è sempre stato: la natura è la fonte da cui attingo. Nei primi lavori maceravo funghi, dipingevo con i fiori, usavo materiali organici come piume, frammenti di denti di animali, conchiglie, madreperla, avorio, coralli, la natura è stata un supporto ma anche un legante, un serbatoio naturale fondamentale per me e per il mio lavoro.
La narrazione della natura è cambiata nel tuo percorso artistico. Qual è il tuo rapporto con l’ambiente?
Ho un approccio struggente. Sono un amante della natura: vado spesso in campagna, a funghi, tartufi, raccolgo erbe selvatiche, coltivo l’orto, ma sempre più spesso vedo un ambiente agonizzante che va aiutato. Penso sia importante innanzitutto viverlo. Se non viviamo l’ambiente non ci accorgiamo di ciò che sta succedendo e di ciò che dovremmo fare per salvarlo. Quando vedo capolavori come il mosaico di Anubi o La Gioconda penso che in queste opere ci sia davvero il segreto del millenario rapporto dell’uomo con la natura, si percepisce la possibilità di vivere davvero in armonia con l’ambiente. Oggi viviamo in un momento di forte sfruttamento del nostro pianeta, credo che l’uomo prima o poi debba risolvere questo conflitto.

Molte opere riprendono mondi arcaici provenienti dall’archeologia, tribù indigene, forse africane, forse azteche. Da dove derivano queste influenze?
Anni fa anche Molinari, noto critico di Bologna, me lo chiese. Si era accorto che nel mio lavoro c’era molta promiscuità, mentre il filosofo curatore Senaldi parlò di meticciato espressivo ovvero un qualcosa di contaminato, che spazia dagli indiani d’America alle figure disneyane. La critica Lorenzetti ha sottolineato che le mie creazioni nascono dalla ricerca che ha definito antropologia dell’immagine a spaziare da un’idea scultorea di stampo classico al giocattolo. Non so dare una risposta precisa, posso dire che l’aspetto più intrigante del mio lavoro è che questi influssi escono da un inconscio, sono retaggi che provengono da ciò che ho visto, immaginato, vissuto, letto però non ho mai usato matrici di riferimento, né ho mai avuto modelli a cui ispirarmi.
Altre due componenti presenti nei tuoi lavori o direttamente o in modo evocato sono la religione e il sacro. Che rapporto hai con queste due dimensioni?
Il mio rapporto sia con la religione sia con il sacro negli anni è cambiato molto così come è cambiata la mia visione della vita. Alcune opere non sarei più in grado di rifarle oggi. Non mi è mai interessato essere provocatorio nel mio lavoro. Molti lavori li facevo più per me che per gli altri, anche se dovrebbe essere il contrario.
Nei tuoi cicli artistici hai lavorato molto sull’immagine. Ho trovato di estrema attualità il lavoro per la Marena Rooms Gallery dove installazioni musive interagivano con immagini proiettate e riprese dal web. In un certo senso un lavoro anche anticipatore rispetto ai nostri tempi in cui i due linguaggi sembrano quasi fondersi…
Mi affascinava l’idea di far vivere le icone dei giorni nostri trasformandole in mosaici ma dotandole di una luce nuova. Il mosaico vive e si anima di luce, l’occhio interagisce con le immagini con rifrangenze e riflettenze, anche questo sfavillio ci emoziona e ci coinvolge. In quell’occasione ricreai la penombra, anche criptica, in stanze non illuminate dai faretti, ma solo da proiezioni di colore ovvero immagini elettroniche puntate sui mosaici. L’intento era anche l’effetto di scontro tra una tecnica millenaria, il mosaico, e il fatto di cronaca del momento: dal polpo Paul che prediceva i risultati dei mondiali di calcio alla caduta del presidente del Consiglio Berlusconi a Montecatini ecc. Per far riflettere su come la trattazione del fatto di cronaca da parte dei media cambia la comprensione della notizia e anche il significato dell’immagine viene modificato. Recentemente su 5835 Magazine è apparso un micromosaico che feci di Putin con un breve articolo, nel giro di pochi giorni la situazione è diventata quella triste che conosciamo oggi, il testo ha acquisito tutt’altro significato e anche la comprensione dell’immagine.

Ritornando al tema degli stimoli e delle connessioni, tra i tuoi ultimi lavori, un’opera completamente diversa è Mappa Concettuale, esposta in Materia Grigia in occasione dell’apertura di Imperfettoart. E’ molto diversa dalle precedenti opere…
Materia grigia fu una doppia personale con Marco Neri. La considero una sorta di testamento artistico. In questo lavoro ci sono tante radici, le origini del mio pensiero, il mio percorso artistico, il mio modo di lavorare. Dal punto di vista tecnico-formale ci sono il mosaico, la scultura, l’affresco, la pittura ad olio. Ci sono delle proiezioni, poesie ricomposte, frammenti di natura, tutto il mio mondo. Mappa concettuale va a toccare anche tutte le mie corde: l’ironia, la sacralità, la religione, la natura, le mie passioni, i miei interessi. I materiali utilizzati hanno anche un forte valore simbolico. Quando ho compiuto quest’opera mi sembrava l’atto conclusivo di un percorso in cui ho cercato di mettere in luce i collegamenti tra i lavori svolti nel tempo e tutta la ricerca compiuta negli anni.
Della tua produzione artistica molto vasta, apprezzo l’originalità delle tue opere, aspetto non scontato oggi. Siamo sommersi di immagini, con internet tutto è diventato estremamente accessibile, ciò che nasce in un angolo del pianeta lo ritroviamo identico dall’altra parte del mondo. In questo contesto a tuo avviso l’arte riesce ancora a generare qualcosa di veramente nuovo?
Credo che l’arte non sia morta, ci sono veramente grandi artisti in giro per il mondo che fanno lavori molto interessanti. Come dicevo prima, mi farebbe piacere capire qual è il nuovo volto dell’arte. Ogni tempo, ogni epoca ha la sua arte che lo rispecchia e lo rappresenta, oggi mi sembra stiamo perdendo le nostre origini, le matrici, i collegamenti con la storia. Conoscere le radici può aiutare a trasformare il lavoro in qualcosa di nuovo. Per trasgredire un linguaggio bisogna prima conoscerlo anche nella pratica mentre l’arte si sta allontanando sempre di più dal fare, molti artisti lo considerano svilente. In questo senso penso sia importante mantenere luoghi che educhino ancora al pensiero e alla pratica artistica.

In questa produzione ampia ci sono opere a cui sei particolarmente affezionato?
Le opere che amo di più sono quelle che non potrei più rifare, né tecnicamente né mentalmente. Le guardo con occhi meravigliati, sensibili. In questa schiera di lavori ci sono anche opere scomparse, distrutte, trafugate come per esempio la bellissima scultura sulla storia di Teodorico dedicata a mia madre: mi rimane solo un’immagine, un po’ quello che sta succedendo oggi con l’arte. Parte del mio cuore è in questi lavori.
Quale dovrebbe essere a tuo avviso il ruolo dell’artista nella nostra società?
In questo preciso momento storico credo che ogni artista debba fare di tutto perché il patrimonio culturale e la tradizione che abbiamo sviluppato nel corso di secoli non svanisca. Non si stanno estinguendo solo piante e animali, ma anche i valori legati alla superficie, alla plasticità, a ciò che è riconducibile all’epidermide della pittura, del mosaico, della scultura, si sta veramente perdendo un mondo, il pericolo è grande.
Ci dai qualche anticipazione sui tuoi prossimi progetti?
Il mio lavoro in studio prosegue, ho molte opere inedite. Per l’autunno io e Francesco Cavaliere stiamo preparando un grande evento espositivo che ricostruisce il nostro percorso con parti distinte fino ai più recenti lavori realizzati insieme. A breve sarà completato anche il libro d’artista a tiratura limitata che stiamo realizzando sempre congiuntamente. Raccoglie il percorso compiuto per arrivare alla realizzazione della residenza alla Gluck50, un lavoro unico con interventi, testi, immagini. In questa fatica ci sta accompagnando il bravo critico Daniele Torcellini. In cantiere anche la realizzazione di un disco con la performance svolta a Manifesta. Al momento sono anche molto impegnato con le accademie di Ravenna e Foggia dove insegno.

A proposito di stimoli la mente di un’artista riposa mai davvero?
Mi piacerebbe staccare la spina, ma non è facile. Penso continuamente al mio lavoro anche quando sto facendo altro. I momenti di pausa sono pochi, ci sono immagini che ricorrono più di altre e quelle ti danno l’input per impostare nuovi lavori. L’artista ha una specie di malattia da cui è impossibile disintossicarsi!

Biografia – https://www.leonardopivi.com/biography/