La presenza degli dèi, riesci a sentirla? | Intervista a Francesco Cattaneo

di Elena Minissale

Francesco Cattaneo, professore di Estetica presso l’Università di Bologna, ha pubblicato il suo ultimo libro con Orthotes Editrice. Il volume, La presenza degli dèi, si avventura nel mondo mito con un ritorno filosofico al mondo dei greci, attraverso Schopenhauer e con le voci di Friedrich Nietzsche e Walter F. Otto che danzano in un duetto di accordi e disaccordi. Otto mette in discussione il pessimismo di Nietzsche rispetto al mondo greco: “L’esistenza del mondo si giustifica solo come fenomeno estetico” (l’insegnamento della tragedia greca secondo Friedrich), ma incontra il filosofo ottocentesco nel tentativo di trovare un accesso adeguato alla Grecia classica, mettendo in discussione, per forza di cose, i presupposti del cristianesimo e della filosofia moderna. Uno dei principali temi di contestazione da parte di Otto è il concetto di “volontà”, successivo all’uomo greco ma non per Nietzsche.

Francesco Cattaneo

La volontà come “entità ostinata, misteriosa, autoreferenziale e fondata esclusivamente in se stessa” è una caratteristica che appartiene all’uomo romano, non all’uomo greco. Questo tipo di uomo non è più votato all’essere, ma alla lotta. Nell’antica Grecia, l’essere era al centro dell’esistenza, dell’esperienza, della conoscenza. La filosofia di Nietzsche non può che fraintendere il mito dell’uomo greco in quanto totalmente inscritta in un contesto cristiano e moderno. Tuttavia, nell’apparentemente instancabile accanimento critico rispetto al filosofo nichilista, Otto di tanto in tanto ritorna a galla, libero dall’apnea strutturale del suo pensiero, ed è capace, con la semplicità che appartiene ad ogni uomo, di fidarsi della propria percezione cosmica, e quindi di rendersi conto che in ogni momento storico dell’uomo è possibile sentire la presenza degli dèi.

Leggere contenuti classici per me è stato un ritorno a memorie scolastiche del liceo e dell’università. Da quando sono sprofondata nel limbo binario del mondo virtuale con pretese e aspettative dionisiache che come mito mi ripropongono ripetutamente la mia stessa immagine (spesso in reverse dato lo smodato utilizzo di autoscatti digitali cui mi sotto-sopra-pongo), la complessità che conosco ha mutato la sua forma consentendomi di cambiare pelle e averne una più sintetica, bella e liscia. La mia nuova condizione di individuo nel mondo è oggi ignorante a tal punto da aver raggiunto una sorta di essenziale matrice naturale che mi riconduce a intuizioni universali, apparentemente invisibili in questa nuova era tecnologica e artificiale, ma per la prima volta strettamente collegate a leggi di mercato astratte e potenti. Non essendo un’addetta ai lavori rispetto all’argomento filosofico, ho posto all’autore del libro alcune domande che potranno mettere a fuoco i temi del volume che in modo immediato possono più ricondursi alla sensibilità dell’uomo odierno:

All’interno del tuo libro si parla dell’“inaudito” e della resistenza e del rifiuto dell’io moderno rispetto al dovervisi esporre. Ogni giorno riscontro la condizione di asserragliamento (il protettorato artificiale cui ci si appiglia) negli altri miei simili e ne provo disagio pur essendo inserita nella medesima dinamica. L’inaudito, oggi, a questo punto del nostro sviluppo, si vive dentro il proprio pozzo cerebrale o è stato ufficialmente debellato da noi tutti? 

Günther Anders (1902-1992)

Mi fa piacere che tu abbia ripreso questo tema, data l’importanza che esso riveste nel pensiero di Walter F. Otto. Mi chiedi se l’inaudito – che per Otto coincide in ultima istanza con la “teofania”, con la manifestazione del dio, e quindi con il mito, in quanto “luogo” di tale manifestazione – sia stato ufficialmente debellato. Nell’ottica di Otto, la domanda andrebbe rilanciata alla rovescia: per quanto l’uomo moderno si ritenga “signore e possessore della natura” (per citare il Descartes del “Discorso sul metodo”), per quanto sia convinto di aver “ucciso Dio”, vale a dire, nei termini di Nietzsche, di aver riconosciuto in Dio una costruzione umana che ha ormai perso la sua utilità e necessità storica, può egli mai pretendere davvero di aver esaurito e svuotato l’inaudito che riposa nel cuore della natura? In Otto emerge un nesso intimo tra divino e natura, che raggiunge la sua massima espressione nell’esperienza greca: il divino non trascende la natura, ne segue i lineamenti, pur costituendone il culmine spirituale. La domanda che mi ponevi potrebbe dunque essere riformulata in questi termini: l’uomo ha completamente asservito la natura, non solo la natura esterna, ma anche la propria? Sembrerebbero esserci buone ragioni per affermarlo, guardandoci intorno e prendendo atto della potenza della tecno-scienza. Si tratta di una vexata quaestio della filosofia dell’ultimo secolo. Attraverso le sue macchine e i suoi strumenti, l’uomo ha ridotto la natura esterna a un fondo di risorse a sua disposizione e al contempo, con le biotecnologie, ha cominciato ad assumere il controllo della sua natura interna, a riprogettare se stesso. Le linee di tendenza del postumanesimo, del transumanesimo, dell’estropianesimo puntano precisamente in questa direzione: per dirla con Günther Anders, l’uomo sta diventando antiquato, deve prepararsi a un salto evolutivo per via artificiale. Non sarebbe bello liberare l’uomo dalla sua finitezza, dalla materia deperibile di cui è fatto, e al contempo incrementare esponenzialmente le sue capacità di calcolo e la sua efficienza, renderlo sempre più simile, a livello prestazionale, a una macchina? Eppure, alla base dell’esperienza umana continua a esserci una fenomenicità irriducibile, connessa alla concretezza del corpo e del sentire, una concretezza in cui si radica ogni “ragionamento” e “calcolo”. Per Otto, questa naturalità inestirpabile è, nella sua espressione più elevata, la teofania, l’esperienza del divino in quanto in-audito.

Rudolf Otto (1869 –1937)

La cosiddetta ragione strumentale, per Otto, è un fenomeno derivato: senza essere costantemente alimentata dall’orizzonte mitico del dispiegarsi del divino, essa patisce uno sradicamento e comincia a girare a vuoto, a perdersi. Ecco il punto: di fronte all’in-audito si possono chiudere gli occhi, ci si può tappare le orecchie, sì da rifuggire l’irruzione destabilizzante e scardinante con cui esso si presenta, ma non lo si può cancellare o rimuovere. Esso rimane sempre presente, latente finché si vuole, giammai nullo. Se non ci si rapporta in qualche modo a esso, se si tenta solamente di costruire un muro difensivo per respingerlo, presto o tardi rischia di presentarci il conto: anziché come sorgente del significato, si perverte sempre più nell’immagine malata e sinistra di una potenza distruttiva (si pensi alla “tecnicizzazione del mito” di cui parlava Furio Jesi in Germania segreta).

Vorrei sottolineare un ultimo punto. L’esperienza della natura discussa da Otto è tutto fuorché consolatoria e fantasiosa. Pensiamo solo alla materia. Cos’è la materia? Tutte le certezza di cui credeva di disporre il positivismo ottocentesco sono franate rovinosamente con la meccanica quantistica. Alla domanda definitoria su che cosa sia la materia, le risposte divengono sempre più oscillanti e incerte. Appartiene invece a tutti l’esperienza originaria – per quanto negletta e trascurata – del suo carattere materno (“materia” deriva da “mater”).

Friedrich Hölderlin (1770-1843)

Il problema della natura è di grande momento in un’epoca in cui si prospetta un’estinzione della nostra specie e una distruzione della Terra. Il dibattito ecologico sta prendendo sempre più piede. Esso, tuttavia, risulta non di rado viziato, nella misura in cui continua a vedere la natura nella stessa prospettiva che ha generato la crisi attuale: la natura come fondo. Ho a volte l’impressione che molte delle ricette proposte si risolvano in tentativi di essere più virtuosi, più accorti nell’uso e nell’impiego di questo fondo, in modo da evitare, o ritardare il più possibile (almeno fino al momento dell’inizio della colonizzazione spaziale), il collasso. Ma, come diceva Einstein, ripetere alla nausea le stesse azioni (o, nel nostro caso, azioni simili, legate agli stessi principi) aspettandosi dei risultati diversi è una forma di follia. Non diviene necessario, allora, guadagnare una diversa esperienza della natura? Forse addirittura, per quanto la parola suoni velleitaria e démodé, un’esperienza poetica?

Hölderlin scriveva in un celebre luogo: “Poeticamente abita l’uomo su questa terra”. Immaginare in cosa consista questo abitare poetico è una delle imprese per noi più difficili. Per Hölderlin, come per Otto, esso ha a che fare con l’esperienza del divino, con l’apertura all’inaudito. È forse per questa ragione che Heidegger, uno dei pensatori che più profondamente hanno riflettuto sulla natura, intervistato nel 1972 dallo “Spiegel” si spinse a una formulazione di primo acchito equivoca e spiazzante: “Ormai solo un Dio ci può salvare”. Col che Heidegger non intendeva che ormai solo l’intervento miracoloso di un dio onnipotente può cambiare la nostra sorte. Intendeva, semmai, che la nostra sorte può mutare solo se torniamo a fare esperienza del sacro.

“La ripetizione è, per un dio, segno maestoso, il sigillo della necessità” (Calasso). Dioniso, per esempio, stupra innumerevoli fanciulle e le considera appartenenti al canone divino, ineluttabile. Nel mito gli dèi fanno ciò che vogliono degli uomini, ma li desiderano e si mischiano a loro. Proprio per questo ogni cosa è più violenta e potente. Oggi siamo noi uomini che in assenza degli dèi ripetiamo ossessivamente azioni che vengono percepite dal nostro ego come divine. In nome di tale visione e atteggiamento usiamo il nostro prossimo per fini di utilità spicciola e di immediato tornaconto, con l’ausilio\scudo dell’etica che abbiamo impostato per sostenerci e che è strutturata per essere un coltello a doppio taglio. Vivere oggi è dolorosissimo, eppure è possibile essere indifferenti a questo dolore. 

Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno (1903 – 1969)

Mi verrebbe da osservare: quando mai non è stato doloroso vivere? Certo, anche Adorno nella Dialettica dell’illuminismo segnalava come la violenza abbia mutato forma e piano: se prima si trattava della violenza connessa alla potenza della natura, ora l’uomo, che attraverso la sua ragione è riuscito ad addomesticare la natura, ha introiettato la violenza nei suoi stessi sistemi di controllo, trasformandola in violenza dell’uomo sull’uomo. Al punto che Adorno ha potuto scrivere che “sul mondo totalmente illuminato splende un sole di trionfale sventura”. Il circolo vizioso della violenza può essere spezzato? C’è da dubitarne. Ma quel che si può fare, e che si deve fare, è dare voce al grido del sofferente, costruire uno spazio in cui esso possa risuonare, facendosi largo nelle retoriche del progresso. Il cosiddetto “progresso”, d’altronde, spesso non fa altro che sostituire determinati assetti di sfruttamento e di potere con altri. Esso non solo causa nuovo dolore, ma lo rende ancor più disperato quando, per mezzo dei suoi cantori e apologeti, pretende anche di ridurre tale dolore al silenzio in nome della superiore legittimità della marcia dello sviluppo. Occorre dunque alimentare degli spazi di resistenza – sempre tenendo ben presente che non ogni resistenza si equivale. Le uniche forme di resistenza non episodiche o velleitarie sono quelle che affondano le proprie radici nella sostanza più intima della nostra esperienza. Per Otto si tratta dell’inaudito accadere della teofania.

 In ogni caso, con o senza dèi, ogni individuo ha coscienza del presente, memoria di ciò che è stato e intenzionalità rivolta al futuro dentro un corpo consapevole della propria finitudine. Questo è ciò che la nostra mente deve gestire nello spazio temporale a sua disposizione. La presenza di un mondo artificiale virtuale sta alterando questa condizione? 

Paul Virilio (1931-1918), ritratto di Thierry Ehrmann

In un suo bel libro, l’Incidente del futuro, Paul Virilio parlava del carattere “gnostico” della scienza moderna: essa aspirerebbe a liberare l’uomo dal suo fallibile e inadeguato supporto materiale, a riprogettarlo da capo, rovesciando completamente la natura in artificio. L’uomo prenderebbe interamente il controllo della natura, anche della propria, arrivando a realizzare il vecchio sogno prometeico di produrre se stesso. Pensiamo solo a quanti stimoli informatici siamo di continuo esposti. Le notifiche dei nostri cellulari possono incrementare a tal punto da renderci delle appendici affannate del suo corretto funzionamento. Siamo costretti a trasformarci in centrali di elaborazione dati – ruolo in cui misuriamo tutta la nostra inadeguatezza. Di qui l’esigenza di una sostituzione della nostra intelligenza limitata con un’intelligenza artificiale dalle capacità di calcolo e di elaborazione infinitamente superiori. Ma c’è da dubitare che questo processo di completo rimpiazzo della “naturalità” possa andare e buon fine. Perché per quanto ci si appropri di sempre più strati di “natura”, mutandoli in artificio, per quanto si eroda e assottigli la “naturalità”, per quanto si scavi a fondo, sotto la natura riposa sempre dell’altra natura. Trovare un equilibrio con essa, anziché solo ignorarla o aggredirla, cogliere l’occasione per immaginare un equilibrio poetico finora inaudito, coincide ormai con le nostre stesse speranze di sopravvivenza. Le nostre. Non quelle della natura. Perché, com’è chiaro, l’eventuale scomparsa dell’uomo sarà un evento irrilevante nell’immane e inconcepibilmente grande vicenda dell’universo.

 

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