La ricerca UniBo sugli effetti del paracetamolo nel trattamento dell’infezione da Covid-19

di Maddalena De Franchis.

È stata un’analisi meticolosa di tutta la letteratura scientifica, pubblicata dallo scoppio della pandemia e messa a disposizione della comunità globale di studiosi, a far emergere, già nell’estate 2020, una verità dagli effetti potenzialmente deflagranti: l’uso del paracetamolo nel trattamento dei primi sintomi del Covid-19 avrebbe inibito la produzione, da parte delle cellule, di una molecola chiamata glutatione, nota per i suoi effetti antiossidanti e protettivi.

È la conclusione cui sono arrivati Carmela Fimognari, professoressa ordinaria di Farmacologia al Dipartimento di Scienze per la Qualità della vita del Campus di Rimini, e il collega dell’Università di Urbino Piero Sestili, autori dello studio ‘Paracetamol-Induced Glutathione Consumption: Is There a Link With Severe Covid-19 Illness?’ (trad. Il consumo di glutatione indotto dal paracetamolo: c’è un collegamento con la malattia grave da Covid-19?), pubblicato dalla rivista scientifica Frontiers in Pharmacology e più volte citato anche da articoli di stampa non specializzata. 

Professoressa, in cosa consiste il vostro studio? 

«Abbiamo messo in relazione le evidenze scientifiche di cui già eravamo in possesso – i noti effetti inibitori del glutatione a opera del paracetamolo, anche se somministrato a basse dosi – con l’andamento dell’infezione da coronavirus in centinaia di casi, catalogati dalla letteratura scientifica giorno dopo giorno. La carica virale – la cosiddetta ‘tempesta citochinica’, scatenata soprattutto a livello del polmone – sarebbe stata efficacemente contrastata dal glutatione».

La somministrazione della comune Tachipirina, farmaco da banco ritenuto estremamente sicuro, avrebbe dunque abbattuto le difese naturali dell’organismo.

«Non solo: tra i possibili effetti avversi del paracetamolo c’è anche l’ipercoagulazione del sangue, all’origine della trombosi. Un rischio già innescato dalla malattia da Covid-19». 

Perché, allora, la Tachipirina era saldamente presente in diversi protocolli di cura ministeriali, compreso quello italiano? 

«All’indomani dello scoppio della pandemia, guadagnarono notevole risalto alcuni articoli scientifici che evidenziavano i potenziali effetti avversi dei Fans (farmaci antinfiammatori non steroidei, ad esempio ibuprofene) nel trattamento dell’infezione da Covid. Ciò bastò a riportare in auge il paracetamolo: successivamente, anche gli articoli sulla potenziale nocività dei Fans si sono rivelati privi di fondamento». 

Avete provato a segnalare la cosa al Ministero? 

«Certo: già a marzo 2020 abbiamo firmato, assieme a veri e propri luminari della medicina e farmacologia, una lettera in cui suggerivamo alcuni accorgimenti per possibili terapie domiciliari – fra cui l’uso del cortisone per bloccare immediatamente il replicarsi dell’infiammazione. Poi, nell’estate 2020, abbiamo provato più volte a sottoporre al Ministero gli esiti del nostro studio». 

Cosa vi hanno risposto? 

«Non abbiamo mai ricevuto risposta». 

In compenso, il vostro articolo ha avuto grande risonanza fin dal giorno della pubblicazione, per poi finire letteralmente ‘in pasto’ ai no vax. 

«Proprio così: essendo un articolo liberamente consultabile su PubMed (uno sterminato motore di ricerca gratuito di letteratura biomedica, ndr), molte persone hanno potuto leggerlo, interpretandolo ciascuna secondo le proprie competenze. E i no vax hanno finito per sbandierarlo nella loro battaglia contro le ipotetiche omissioni ministeriali nella gestione della pandemia». 

È possibile sgomberare il campo dalle possibili interpretazioni sbagliate del vostro articolo? 

«Certo, ribadendo che, all’inizio, numerosi errori sono stati commessi perché il coronavirus era, in generale, poco noto alla comunità scientifica. Si ignorava in che modo penetrasse nell’organismo, né si conosceva, ad esempio, il ruolo della proteina Spike. In precedenza, di simile c’era stato solo il virus Sars, che però si è dimostrato molto meno contagioso. Parecchi errori sono stati proprio il risultato di tentativi, affrettati e convulsi, di arginare la pandemia, in un’epoca in cui non c’erano né vaccini, né gli antivirali mirati di cui disponiamo oggi». 

Mentre sembra che il virus stia lentamente mollando la presa, qual è la lezione che possiamo trarre dalla pandemia? 

«Abbiamo compreso l’importanza della condivisione internazionale delle informazioni, così come la collaborazione tra studiosi con profili diversi (immunologi, virologi, farmacologi, etc). Non dimentichiamo, però, che la ricerca ha compiuto passi da gigante – in un lasso di tempo relativamente breve – perché ha beneficiato di risorse economiche ingenti, erogate dagli Stati». 

Una lezione soprattutto per l’Italia, Paese notoriamente avaro di finanziamenti a favore della ricerca anche universitaria.

«L’emergenza sanitaria ci ha insegnato che, alla lunga, il disinvestimento strisciante che ha caratterizzato i settori dell’istruzione e della ricerca si paga assai caro». 

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