L’arte di Gabriele Lamberti
«Volevo nutrire di contenuti la mia poetica per poi capire come esprimerla attraverso soprattutto il linguaggio della pittura». Queste le parole di Gabriele Lamberti, nato a Monzuno nel 1957, artista bolognese con una doppia formazione acquisita prima all’Università di Bologna, dove si è laureato in Filosofia (Estetica), e poi all’Accademia delle Belle Arti della stessa città, dove si è diplomato in Pittura e dove tuttora insegna anatomia artistica.
Il suo repertorio artistico affonda le sue radici nell’infanzia, nel mondo delle favole, dei miti e dei personaggi biblici. Attraverso un linguaggio espressivo apparentemente semplificato e leggero, dà vita a narrazioni enigmatiche e misteriose che indagano i meccanismi più profondi dell’animo umano.

Ha avuto una formazione universitaria prima nell’ateneo bolognese e poi artistica presso l’accademia delle belle arti della stessa città. Cosa l’ha spinta verso questo duplice percorso?
«L’influenza e l’importanza che hanno avuto la formazione universitaria attraverso gli studi all’ex Facoltà di Filosofia e al Dams e la laurea in Estetica sono state soprattutto in funzione di un approfondimento che ho continuamente cercato sul piano dei contenuti. Gli studi in accademia mi hanno dato invece la possibilità di sperimentare le tecniche artistiche. Mi interessava sapere che cosa dire, come riempire di contenuti il mio lavoro artistico. Sono stato attratto fin dalle scuole superiori dalla filosofia, soprattutto la filosofia morale, l’etica e l’estetica, perché mi aiutava a capire il senso della vita e mi aiutava ad avvicinarmi a quei valori profondi che attraverso l’estetica, la filosofia dell’arte, possono essere travasati nella propria pratica artistica. Poiché ho disegnato e dipinto fin da bambino avevo bisogno poi di immergermi e frequentare una scuola che mi permettesse di venire a conoscenza delle tecniche per esprimere quel mondo di contenuti che in gran parte mi aveva aperto l’ambiente universitario e il percorso svolto».
Le sue opere sono caratterizzate da elementi surreali e onirici che hanno le radici nel mondo dell’infanzia. Da dove proviene questo immaginario?
«E’ un immaginario infantile alimentato dai programmi televisivi degli anni sessanta, dalla Tv dei ragazzi, da Carosello, dai libri illustrati, dai fumetti, dai sussidiari delle scuole elementari e medie, dai giocattoli di celluloide e plastica: mondi che hanno nutrito la creatività della mia infanzia e adolescenza rimanendo un punto di riferimento nel mio lavoro. Fin dagli esordi post accademici mi sono riferito all’originarietà dell’essere umano che all’inizio ricercavo nei graffiti rupestri, nell’arte aborigena e primitiva. Ho poi attinto dalla mia infanzia, dal mio vissuto e dalla mia storia personale legata a questi oggetti simbolici e ai mezzi di comunicazione e di intrattenimento».

Cosa si nasconde nella rappresentazione rassicurante di soggetti fiabeschi?
«L’aspetto inquietante che è presente nei miei lavori è dovuto al fatto che la nostra vita è dominata dalle polarità dell’Eros – la baconiana pars construens – attrazione costruttiva che scaturisce dall’amore e dalla libido e la polarità di Thanatos – pars destruens – la parte distruttiva dominata dalle pulsioni di morte. Queste sono le due grandi forze che caratterizzano la nostra esistenza dalle quali siamo fortemente attratti e fra le quali ci bilanciamo per tutta la nostra vita. Le fiabe non potrebbero funzionare se non esistesse l’aspetto orrorifico, quello che Freud chiama il perturbante – Das Unheimliche – che nell’Ottocento è stato edulcorato soprattutto ad opera dei fratelli Grimm attraverso il catartico lieto fine. Poiché anche i bambini sono attratti subito da queste due polarità, Eros e Thanatos, ci dev’essere l’aspetto inquietante quando si maneggia il materiale fiabesco, diversamente si corre il rischio dell’effetto stucchevole e didascalico. Aspetti che ho continuamente cercato di evitare nel mio lavoro e nella mia poetica».
Nella sua ultima esposizione “Il mondo (parallelo) del Coniglio Nero” come è nato il protagonista e cosa rappresenta?
«Il Coniglio Nero è un trickster, un briccone, un mio alter-ego. È stata una ierofania, un’apparizione in un periodo di crisi creativa in cui ero alla ricerca di un nuovo immaginario. Un pomeriggio d’estate mi è apparsa quest’ombra proiettata nella parete dell’appartamento di fronte alla finestra del mio studio e mi è sembrato che volesse dialogare con i quadri che erano lì accanto a me. Immediatamente ho capito che quest’ombra era un coniglio antropomorfo che avrebbe potuto giocare e intrufolarsi molto bene nel mio immaginario e nel mio repertorio di figure. Sto portando avanti da più di dieci anni il Coniglio Nero e continuerò a svilupparlo perché costituisce una bella sintesi e un’innovazione rispetto alla mia storia passata, quello che è il presente e l’immediato futuro»

Le figure antropomorfe ricorrono nel suo lavoro… di quali messaggi sono portatrici?
«La figura umana mi ha sempre interessato, non a caso insegno anatomia artistica. Più che al sòma sono stato interessato alla psyché, agli aspetti psicologici, allegorici e simbolici di cui la figura umana è portatrice. Mi hanno appassionato artisti come Ensor, Redon, Rousseau le Douanier, Savinio, De Chirico, i simbolisti, gli espressionisti tedeschi e altri ancora, una lista che sarebbe molta lunga e incompleta. Ricordo che Alberto Giacometti, rispondendo a un collega che gli domandava perché in piena stagione informale ed espressionista astratta lui si fosse messo a fare teste e corpi, rispose “perché in una testa c’è un mondo”. In ogni volto c’è la propria maschera e in ogni corpo un mondo di significati simbolici e metaforici. Molto dipende dal contesto in cui è inserita quella figura umana e quale rapporto narrativo o evocativo fa scaturire la sua presenza in relazione ad altre figure o circostanze».
Rispetto alla sua arte si può parlare di un nuovo Surrealismo?
«Non credo ai remake. Credo invece che esistano delle costanti nel tempo sul piano della creatività che hanno a che fare con alcune categorie quali l’onirico, la visionarietà ovvero la capacità di vedere oltre il visibile, il perturbante, nella pratica degli artisti. Il riferimento al mondo onirico ha preceduto il surrealismo, l’ha seguito e continuerà sempre ad essere una delle fonti ispiratrici fondamentali per la creatività umana. Così come la capacità di vedere oltre il visibile e di prefigurare mondi altri rispetto alla realtà. Per quanto riguarda la mia ricerca e il mio lavoro di artista occorre fare riferimento alla corrente denominata Medialismo e specificamente alla Pittura Mediale teorizzata nei primi anni novanta dal critico Gabriele Perretta che prefigurava un immaginario legato ai media vecchi e nuovi e a tutto ciò che aveva alimentato la nostra immaginazione di bambini e ragazzi nati e cresciuti negli anni Sessanta/Settanta».
Qual è il processo creativo che segue nella creazione di una nuova opera d’arte?
«Spesso i quadri li ho sognati, riferendomi al mondo onirico a cui facevo riferimento prima. Altre volte la suggestione avviene in modo pareidolico da un colore, da una macchia, da una forma che mi appare, anche in questo caso come una ierofania. L’occhio percepisce, la mente collega alle proprie categorie rappresentative e la mano trasforma in immagine, porta a compimento in un quadro. In passato spesso è stato l’accostamento di due colori a suggerirmi un’immagine. Mi hanno costantemente interessato i rapporti cromatici espressivamente forti, il gioco dei colori primari e dei loro complementari ha costituito la base dei miei lavori delle origini. Ora dipingo utilizzando una palette cromatica più sobria, spesso addirittura in bianco e nero».

A quali progetti futuri sta lavorando?
«Nonostante abbia privilegiato il linguaggio della pittura, nel mio percorso artistico ho sperimentato anche altre tecniche o direttamente o in collaborazione con esperti del settore. Ho realizzato mosaici, un arazzo tessuto con la tecnica kilim. Penso che nei progetti futuri ci sarà una sperimentazione e una produzione rivolta in questo senso. Mi interesserà praticare ancora il mosaico, soprattutto un mosaico che conservi una memoria della propria storia e della propria origine. In genere seguo dei cicli che nascono anche spontaneamente da impressioni, da suggestioni, anche dai rapporti didattici che ho con gli studenti nel mio lavoro di insegnante in Accademia. Queste suggestioni poi si manifestano e si sviluppano in una serie di lavori che costituiscono i miei cicli creativi».
Raccontava che è rimasto piuttosto fedele alla pittura. In che modo questo medium risulta funzionale rispetto al contenuto e ai messaggi che vuole veicolare? Che futuro ha la pittura suo avviso?
«Il linguaggio della pittura sarà un linguaggio vivo perché costituisce i fondamentali di ogni pratica artistica. Evolveranno le tecniche, le opportunità offerte dai nuovi media, ma il disegno e la pittura rimarranno sempre il primo e immediato strumento espressivo concesso ad un artista visivo. Non moriranno mai. Io son ben felice di questo e vi ho sempre creduto. Lunga vita alla pittura che non ha mai fatto funerale e che continuerà ad avere un avvenire luminoso e progressivo»
Sito di approfondimento: https://www.gabrielelamberti.it/