Le biblioteche a km0
di Valerio Castrignano
«L’idea per il futuro è dislocare servizi bibliotecari in modo che ogni bolognese possa raggiungerli massimo in un quarto d’ora a piedi». Antonella Agnoli, autrice del libro “Le piazze del sapere” (Laterza 2009) e di tante altre opere sul tema biblioteche, è stata fondatrice e direttrice della Biblioteca di Spinea (Venezia), membro del Consiglio di amministrazione dell’Istituzione biblioteche di Bologna e consulente per numerosi Comuni. È una teorica del futuro della cultura che ha aiutato l’Italia a immaginare come ridisegnare il concetto di biblioteca. Un punto fondamentale per il Paese che verrà e per la sua crescita culturale. Oggi collabora per Fondazione innovazione, alla quale sta dando il suo contributo per ripensare le biblioteche di quartiere della “Dotta”. La città di Bologna sta pensando di realizzare, ispirandosi a Parigi e Barcellona, un modello di città in cui i servizi fondamentali per la vita quotidiana siano raggiungibili da ogni cittadino in “15 minuti” a piedi.

«Nella storia si sono susseguiti diversi modelli di città. Negli ultimi decenni si era sviluppato un tipo di città in cui si viveva in un quartiere, si lavorava in un luogo lontano e si soddisfacevano i propri bisogni recandosi nei grandi centri commerciali, spesso distanti dalle proprie case. Oggi si afferma un modello che preferisce che tutti i bisogni essenziali siano soddisfatti in prossimità della propria abitazione. Sono rinati così i piccoli negozi di quartiere nell’ultimo anno».
Come si potrebbe applicare questo modello anche alle biblioteche?
«Le biblioteche di quartiere sono state realizzate molti anni fa. Alcune di queste realtà non rispondono più ai bisogni di una città trasformata. È necessario guardare i cambiamenti avvenuti a Bologna per capire dove mancano questi servizi».
Per lei la biblioteca ha una funzione essenziale per far crescere culturalmente una società.
«La biblioteca è un pò come la scuola, è un luogo di cultura dove è più facile attrarre le persone e dargli strumenti per portarle a varcare altre barriere culturali. I cittadini spesso non varcano alcune soglie, perché non riescono a superare alcuni impedimenti psicologici e sociali. Non entri dove pensi che non ci sia posto per te, perché ritieni di non essere vestito nel modo adatto, di non conoscere i codici di comportamento giusti, che quello che c’è dentro non ti interesserà. Quindi per questi pregiudizi ci si priva di esperienze all’interno di un museo o di un teatro».
Perché in biblioteca è più facile entrare?
«Perché in biblioteca ci possono andare tutti, perché è un luogo neutro, perché si possono fare tante cose. Non solo studiare o prendere in prestito un libro. Si possono organizzare corsi di italiano per stranieri, gruppi di lettura, lezioni sull’uso dei programmi informatici. Anche qui c’è però un pregiudizio, che si tratti di luoghi solo per gli studenti. La sfida è riuscire a portare i non lettori e quella parte della popolazione che le frequenta poco: anziani, immigrati, adolescenti. Bisogna chiedersi, perché non entrano? Che cosa vorrebbero trovare? Di cosa hanno bisogno? La biblioteca può essere una piazza, un luogo neutro, dove si va a festeggiare un compleanno, a prendere un caffè. Bisogna pensare a Piazza Maggiore».
Piazza Maggiore?

«Sì perché Piazza Maggiore è una piazza strana. Non c’è una statua, una fontana, un punto centrale verso cui guardare. C’è però il Crescentone, dove le persone fanno cose che in piazza normalmente non si fanno. Dormono, mangiano seduti sul gradino, studiano. Una volta ho sentito dire: il Crescentone è come un materasso dove la gente si sente a suo agio. Forse è per questo che Sala Borsa ha tanto successo, perché è una piazza coperta, cioè una biblioteca dove la gente si sente a suo agio e fa cose diverse da quelle che normalmente si fanno in una struttura del genere».
È importante dunque mettere a proprio agio coloro che fruiscono delle biblioteche.
«Certo, per esempio per gli adolescenti, che difficilmente utilizzeranno come luogo di aggregazione un posto dove si sentono giudicati per i loro comportamenti. Tanti miei colleghi inorridiscono se vedono un piede su un tavolo o sentono parlare ad alta voce, cose che a me non danno fastidio, se servono a portare questi ragazzi a frequentare un luogo dove altrimenti non andrebbero».
Cosa consiglierebbe a un bibliotecario?
«Di andare fuori, di comunicare con chi in biblioteca non entra, di aprire tavoli a tutti gli altri. Chiedersi e chiedere cosa fare per migliorare la vita nel mio Comune. Lavorare con gli altri su questo e rimodulare i servizi offerti».
Difficile coniugare questa idea di biblioteca con il Covid…
«Certo, le biblioteche intese come “piazze del sapere” hanno perso il loro elemento più importante, la socialità e la possibilità di essere punto di incontro. La piazza aperta è diventata una piazza chiusa e dunque ha perso durante questo periodo la sua ragione di esistere, non è riuscita a svolgere la sua funzione di conversazione, di gioco, di luogo per chiacchierare».
Cosa si è potuto fare in questo periodo?
«C’è stato un aumento di richiesta per gli e-book, che hanno coinvolto persone che leggevano già, ma anche persone che prima non leggevano. Per rimanere in contatto con gli utenti ci sono stati eventi online, per esempio letture ai bambini. E sugli eventi online nel futuro non si tornerà indietro, una parte degli incontri sarà in presenza, una parte avverrà online. C’è stato un potenziamento del prestito, malgrado la quarantena dei libri. Quello che si è capito è però che non si può fare tutto da casa, come qualcuno aveva ipotizzato, c’è bisogno di un rapporto diretto con le persone. Soprattutto non tutte le biblioteche hanno reagito allo stesso modo».
Bologna come ha reagito?
«In generale al Sud hanno reagito peggio che al Nord, con differenze drammatiche nei dati divulgati dall’Istat. Ha reagito bene Bologna. In particolare è successo questo nelle città dove i bibliotecari non sono stati lasciati soli, ma c’è stata sul tema una grande attenzione delle amministrazioni».