Pazzi per il paesaggio: Hokusai, Hiroshige (e quel giapponese mancato di Van Gogh)
di Jonny Costantino
Appena abbozzate
le curve di un monte
immerse nella nebbia.
Ryūnosuke Akutagawa
La suggestione,
ecco il segreto dell’infinità.
Kakuzo Okakura
Nell’immagine in alto: Katsushika Hokusai, Autoritratto come pescatore (1835) e Utagawa Kunisada, Ritratto commemorativo di Hiroshige (1857).
La grazia del Giappone rifulge a Bologna nella mostra Hokusai Hiroshige. Oltre l’onda, curata da Rossella Menegazzo con la collaborazione di Sarah E. Thompson, meticoloso e sostanzioso percorso espositivo che ha il suo fuoco nel paesaggio. Fino al 3 marzo 2019, presso il Museo Civico Archeologico, sono visibili circa 270 silografie prestate dal Museum of Fine Arts di Boston e provenienti da alcune delle serie più importanti di Katsushika Hokusai e Utagawa Hiroshige.
Le silografie in mostra sono annoverabili nell’ukiyoe, filone pittorico e tecnica di stampa che fiorì tra il 17esimo e il 20esimo secolo. Le stampe ukiyoe sono alla lettera «immagini (e) del mondo (yo) fluttuante (uku)». L’ideogramma uku non sempre è stato letto nell’accezione positiva di «fluttuante». Dalla prospettiva di Buddha, la vita è una fugace illusione che si produce sull’orlo del nulla e la precarietà del mondo è un fardello doloroso per l’uomo pio, la cui vera liberazione è la morte, ovvero l’approdo nel Paese Ignoto, nel Non Luogo, nella Terra Pura. Si comprende perché, nel Giappone medievale, prevalgano accezioni negative di certe espressioni, perché uku stia per «precario» e ukiyo per «mondo precario», ovvero per «mondo di sofferenza».
È dal 17esimo secolo in poi che si assiste a un ribaltamento di senso. Le «fluttuazioni» delle umane sorti cambiano di segno, divengono chance: mentre la modernità schiude impreviste possibilità e la moda propaga le sue malie, l’instabilità inizia a costituire un’opportunità, sia sul piano dell’esperibile sia su quello del posizionamento sociale. Il piacere prevale sul dolore nella lettura di un effimero mondano di cui l’ukiyoe assurge a icona. Icona e cartolina della dolce vita delle città mercantili, in primis Edo, la futura Tokyo, la “città senza notte” dove non resta che stordirsi in sollazzi anche proibiti per stroncare la consapevolezza zen che tutto è vanità, foglia che cade, luce di lucciola.
Gli ukiyoe sono immagini di una realtà che muta sotto l’impulso della tecnica e dei commerci e sotto gli occhi incuriositi ed eccitabili dei Giapponesi. I soggetti prediletti sono le bellezze naturali e gli scorci urbani in voga, il mondo dell’arte e in particolare il teatro kabuki, i bordelli detti “case verdi” o “quartieri dei fiori” e in generale la bellezza femminile. Gli ukiyoe sono lo specchio degli ideali di consumo della borghesia mercantile e della cultura popolare, lo specchio stilizzato e un po’ ruffiano della società giapponese che fa la muta pur senza emanciparsi dalla tradizione.
L’immaginario ukiyoe trova in Hokusai e Hiroshige — insieme a quel voluttuoso impenitente di Kitagawa Utamaro — i suoi più celebrati maestri e raffinati interpreti. La loro arte, se da un lato supera i confini del filone, dall’altro ne decide l’evoluzione. Focalizzandoci sul paesaggio, possiamo affermare che, se Hokusai delinea un modello, Hiroshige lo conduce a un sommo grado di compimento formale: un compimento che un conoscitore dell’arte occidentale potrebbe definire mutatis mutandis — magari pensando al modo in cui Bronzino ha interiorizzato la lezione di Michelangelo — manierista. Ma non corriamo. Facciamo un passo alla volta nei territori di questi invasati del pennello.

Quel geniaccio anarchico di Hokusai
Hokusai nasce nel 1760. Le sue origini sono ignote. A cinque anni il bastardello viene adottato da uno zio, Nakajima Ise, e cresce nel tranquillo quartiere di Honjō della vivace Edo. Zio Nakajima è un fabbricante di specchi e un’antica credenza vuole che ogni specchio contenga l’anima di una donna, ragion per cui nel retro degli antichi specchi di bronzo si può trovare inciso l’ideogramma dell’anima.
Fino a diciott’anni Hokusai lavora come apprendista intagliatore. Poi si dedica al disegno, dapprima come discepolo di Shunshō, famoso soprattutto per ritratti di attori kabuki, in seguito di Kano, pittore ufficiale e cocco dello Shōgunato (lo Shōgunato è il governo militare e resta il massimo potentato giapponese, accanto a quello nominale dell’Imperatore, fino al 1868, quando l’ultimo Shōgun abdica ed Edo viene ribattezzata Tokyo). Con entrambi i maestri finisce male: una volta che l’allievo ha preso da loro il prendibile, assume condotte irriverenti per cui viene mandato a quel paese. Messosi in proprio, Hokusai abbraccia la vita errabonda, povera ed esaltante del giovane artista ebbro di pittura ed avventura.
Si specializza in donne e paesaggi: in ritratti di fanciulle dal viso a «seme di melone» e in vedute dove mette a punto un’idea di prospettiva (ukie) debitrice dei panorami occidentali, innanzitutto delle acqueforti di Rembrandt, in vedute dove si forgia uno stile unico, divenendo presto l’uomo da battere nel paesaggio. Prospettiva, cromìe, rapporti tra figura e sfondo: nessun paesaggista coevo e venturo prescinde dalla lezione di Hokusai. E questo vale non solo per i connazionali, prima di tutti il talentoso Hiroshige, vale altresì per svariati preimpressionisti, impressionisti, postimpressionisti che scoprono la sua arte a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento, cioè dal boom giapponese che ha quali momenti propulsori due esposizioni universali: l’expo londinese del 1862 e quello parigino del 1867.
Un picco di popolarità Hokusai lo tocca nel 1807 nel corso di una performance pubblica. L’allora 47enne pittore impressiona lo Shōgun Ienari con una esibizione di maestosa semplicità: dapprima stende sopra un grande foglio ampie pennellate di blu; quindi vi libera sopra un gallo con le zampe intinte nell’inchiostro rosso; solo allora, quando il pennuto finisce di zampettare, si riconosce il soggetto del dipinto: le acque del fiume Tatsuta che trasportano foglie di acero rosso.
Colui che stiamo chiamando Hokusai è Hokusai, in realtà, soltanto per un circoscritto periodo della sua vita. I suoi nomi d’infanzia sono Tokitarō e Tetsuzō. Diviene celebre come Kasamura Shunrō e nel 1834, 74enne, inizia a farsi chiamare Gakyō rōjin Manji, «il vecchio pazzo della pittura». Giusto per dire qualche nome. Esimî iamatologi e storici dell’arte si perdono nel dedalo dei nomi che il nostro folle del pennello indossava e dimetteva con la nonchalance di un kimono. Hokusai è il nome che lo accompagna dal 1798 al 1813, quando lo rimpiazza con Taito. In quanto appartenente alla setta buddista di Nichiren, il pittore è un devoto del bodhisattva Myōken, l’incarnazione della Stella Polare o Stella del Nord. Frutto di questa devozione, «Hokusai» significa «Atelier del Nord».
Secondo Cees Nootebom, il nome Hokusai non viene abbandonato nel 1813 bensì nel 1810, quando lo passa a un insignificante discepolo, in seguito alle critiche ricevute da una sua locandina teatrale della quale colpiscono soprattutto la «magrezza e la bruttezza» dei personaggi (L’atelier del Nord: Hokusai a Parigi, 1980, in Cerchi infiniti. Viaggi in Giappone, 2017). Lo scrittore olandese non dice altro a riguardo, né svela la fonte, ma lascia intendere come agli occhi di questo artista dai molti nomi — dei quali non si fa scrupoli a fare mercimonio, vendendoli e svendendoli — «Hokusai» possa essere apparso infangato, stroncato, non più redditizio.
Tra il 1830 e il 1831 il Nostro realizza la serie 36 vedute del monte Fuji, che contiene il suo dipinto da esportazione più famoso, La grande onda presso la costa di Kanagawa, conosciuto semplicemente come La grande onda. Non è un caso che oltre 20 anni dopo — nel 1852, quand’è morto da 3 anni — Hiroshige prenda di petto il vulcano sacro, e con esso quel colosso del predecessore, realizzando le proprie 36 vedute del monte Fuji, serie omonima grazie alla quale conquista il primato carismatico che era stato di Hokusai.
La suddetta serie contiene la “variante” di Hiroshige della Grande onda di Hokusai Il mare di Stata nella provincia di Suruga e — nel percorso espositivo bolognese — l’affiancamento delle due opere funge da saldatura tra le sezioni dedicate ai due pittori, con voce in cuffia che confronta i rispettivi moti ondosi rilevando debiti e divergenze. Per inciso: debitrice dell’onda di Hokusai è anche L’onda (1869) di Gustave Courbet, forse la più bella onda dell’Ottocento europeo, conservata a Edimburgo nella National Gallery of Scotland e ammirabile fino al 6 gennaio al Palazzo dei Diamanti di Ferrara nell’ambito della mostra Courbet e la natura.
Torniamo agli anni di Hokusai, tenendo presente che siamo nel tardo periodo Tokugawa, un periodo contraddistinto da stabilità, disciplina, espansione commerciale, ingerenza sull’arte da parte di un mercato che esige dagli artisti che sappiano piacere indugiando nella rappresentazione dei piaceri, siano essi della fantasia, della contemplazione, della carne, purché siano piaceri. Gli sguardi acremente critici o inconformati sono maldigeriti se non intollerati. La creatività viene irregimentata secondo il metodo impartito da accademie sottoposte a controllo governativo e governate da una logica in buona sostanza feudale, per cui l’artista si fa “porta-sguardo” di una determinata scuola. Farsi prendere dallo sghiribizzo di trattare i soggetti prescelti diversamente dalla maniera della propria scuola appare, automaticamente, una minaccia per la scuola. «Il distacco da questa routine significava un ostracismo che avrebbe ridotto l’artista al livello di un semplice artigiano», rileva lo studioso Kakuzo Okakura aggiungendo: «Tale stato di cose non poteva che nuocere all’originalità e all’intelligenza» (Lo spirito dell’arte giapponese, 1904).
Bastino queste rapide notazioni per capire quanto il temperamento inquieto di Hokusai, se da un lato è il pungolo creativo che lo ha reso un gigante, dall’altro non fa certo bene alla sua stabilità economica e alla sua rispettabilità sociale. Raggiunto l’apice della fama, posseduto com’è dall’incostante demone della pittura e bisognoso di vivere a stretto contatto con i più umili, Hokusai si rifiuta di capitalizzare i successi conseguiti e cambia strada quando sarebbe opportuno restare dov’è, con l’effetto di spiazzare i finanziatori e il pubblico che i suoi colleghi sono intenti a compiacere.
Nell’anno 1835 — mentre Hiroshige furoreggia nella produzione nazionalpopolare — Hokusai pubblica due serie di genere letterario che risultano troppo raffinate per i parametri imperanti: Specchio dei poeti cinesi e giapponesi e 100 poesie per 100 poeti in racconti illustrati della balia. Due insuccessi tali che la seconda serie resta incompiuta per perdita d’interesse da parte della committenza. E come reagisce Hokusai alla batosta? Invece di tornare sulla retta via del gusto dominante, come sarebbe conveniente, quel mattacchione d’un visionario dice basta alla catena di montaggio delle immagini souvenir per dedicarsi a un rapporto sempre più intimo con la propria arte.
Una scelta coraggiosa, che gli costa «ogni sorta di traversie che la fortuna riserva ai grandi artisti incuranti, assolutamente sprezzanti del denaro», constata Henri Focillon. Questo biografo d’eccellenza racconta come nei momenti più critici il pittore si ritrovi a vivere come un mezzo barbone e prenda l’abitudine di vendere per un pugno di riso un dipinto. Un dipinto che non di rado è una geniale improvvisazione a partire da una macchia: «l’artista faceva nascere sul foglio di carte o sul pezzo di seta infinite meravigliose invenzioni utilizzando la casualità delle macchie che vi aveva sparso in precedenza» (Hokusai, 1914).
Tutto ha un prezzo nella vita e non c’è azzardo che resti impunito, men che meno un azzardo artistico. E commuove, in questo artista che non esitava a vendersi il nome, l’incapacità di corrompere il proprio segno, la leggendaria fedeltà al sogno della pittura.
Durante la sua rocambolesca vita, il longevo pittore ha cinque figli dalle sue due mogli e frotte di creditori che non gli danno tregua. Verso i 60 anni un ictus lo mette a dura prova. Assillato (con un eufemismo) da creditori che non mollano, Hokusai cerca di fa perdere le sue tracce. Per lunghi periodi il suo domicilio resta sconosciuto. Gli vengono attribuiti circa 93 traslochi. Rugoso e malfermo, tracanna il calice amaro dell’esilio in una miseria che si fa sempre più nera. Ultra70enne, intorno al 1835, si dipinge come un semplice uomo di mare, smagrito e bonario, scalzo e scanzonato (Autoritratto come pescatore). A 80 anni è vittima un incendio che gli brucia la casa e con essa la collezione di opere che conserva fin dalla giovinezza, in pratica il suo fondo pensione. Si rimette in piedi. Scovato un cantuccio per vivere, continua a dipingere fino allo sfinimento splendidi draghi e carpe e tigri e piovre chiavatrici nonché talismani che chiama “esorcismi quotidiani” e che hanno il compito di proteggerlo dai mali della vecchiaia. A suon di pennellate arriva a 89 anni. Infine la Gelida Dama arriva, lo sfiora e lo alletta: nel senso che lo stende.
È il 1849 e fino all’ultima ora Hokusai ci dà dentro di pennello rammaricandosi di essere quasi divenuto il buon pittore delle proprie ambizioni. Tre lustri prima, questo ragazzino di 74 anni, ribattezzatosi «il vecchio pazzo della pittura», scrive: «Fin dall’età di 6 anni avevo la mania di disegnare la forma degli oggetti. Verso i 50 anni avevo pubblicato un’infinità di disegni, ma tutto ciò che ho fatto fino all’età di 70 anni non merita di essere tenuto in nessun conto. Solo all’età di 73 anni ho capito pressappoco la conformazione della vera natura, degli animali, delle erbe, degli alberi, degli uccelli, dei pesci e degli insetti. Ne consegue che all’età di 80 anni avrò fatto progressi ancora maggiori. A 90 anni penetrerò il mistero delle cose. A 100 anni sarò decisamente giunto a un grado di meraviglia e quando ne avrò 110 nella mia opera tutto, anche una semplice linea o un punto, sarà cosa viva. Chiedo a coloro che vivranno quanto me di vedere se avrò mantenuto la parola». Queste frasi accompagnano la serie 100 vedute del monte Fuji ed è difficile scrivere di Hokusai senza cedere alla tentazione di trascriverle. Esse sono il testamento spirituale di un artista che, a un soffio dai 90, non smette di essere — come l’anziano Giuseppe Ungaretti dice di sé — «un discepolo della vita».
Hokusai muore, secondo il calendario occidentale, il 10 maggio 1849. Jisei è il nome che i Giapponesi danno all’ultima poesia, quella redatta in hora mortis o giù di lì. Questo è il jisei di Hokusai, scritto qualche giorno prima della dipartita: «Campagna d’estate / dove scorrazzerò beato / da fantasma». Dove con «fantasma» s’intende lo spirito migrante che abbandona il corpo. Dove «d’estate» sta a significare che il pittore ha ben chiaro che alla stagione calda non ci arriverà in carne e ossa. Dove per «campagna» possiamo immaginare una di quelle che Hokusai tanto amò dipingere, magari con un acero rosso sotto cui andarsi a prendere un po’ di frescura e godersi la vista del Monte Fuji, dove godersi indisturbato il vulcano che nessuno come lui ha immortalato.
Nonostante l’ultima eruzione conosciuta del Fuji risalga al 1708, quel 10 maggio il vulcano fumò ma nessuno lo notò e vuoi sapere il perché? Perché quel fatidico giorno anche il cielo era in lutto e sulle prefetture di Shizuoka e Yamanashi calò una nebbia dello stesso grigio topo della tavolozza di Hokusai, una nebbia così fitta che nemmeno un condor ci avrebbe visto un accidente.

Quel maniaco perfezionista di Hiroshige
Hiroshige nasce nel 1797, anch’egli nell’edonista Edo, e il suo nome di nascita è Tokutarō. È figlio di un samurai di basso rango, ufficiale del corpo dei pompieri, la Brigata del Fuoco. Nel 1809 perde entrambi i genitori ed eredita dal padre la carica di capo pompiere nella caserma del distretto. Versato per l’arte, com’è evidente fin da bimbo, nel 1811 viene preso come allievo dal pittore Toyohiro. I progressi dell’adolescente sono così sorprendenti che, appena un anno dopo l’inizio dell’apprendistato, il maestro gli fa l’onore di affibbiargli il nome d’arte Hiroshige, dove l’ideogramma hiro viene dal proprio rinomato nome.
Le sue prime opere vengono pubblicate nel 1818. Tra esse c’è il libro illustrato Poesie di Murasaki, la grande scrittrice giapponese dell’anno Mille. Un immaginario, quello di Murasaki Shikibu, sul quale Hiroshige ritorna negli anni Cinquanta, realizzando serie silografiche ispirate al suo capolavoro, Storia di Genji, il principe splendente, e lavorate a quattro mani con Utagawa Kunisada, «monopolista del gusto» in ambito ukiyoe — come lo definisce Flaminio Gualdoni nel puntuale testo biografico contenuto in Hiroshige (Skira 2018) — nonché autore dell’ultimo ritratto di Hiroshige (1858).
Nel 1823 Hiroshige rinuncia alla carica di capo pompiere, che passa pro tempore a un parente per essere assunta in via definitiva nel 1832 da Nakajiro, l’amato figlio (probabilmente) adottivo. Sistemato Nakajiro, cui passa gli onori e gli oneri del capofamiglia, Hiroshige può dedicarsi anima e corpo alla pittura, innanzitutto della natura. Dal 1828, quando muore il maestro Toyohiro, la pittura di paesaggio diventa il fulcro della sua ricerca, una ricerca i cui esiti lo renderanno noto come «Il maestro della pioggia e della neve».
Pioggia e neve: siffatte maestrie rifulgono in due opere ammirabili in questi giorni a Bologna. Pioggia: Acquazzone ad Atake (1857, appartenente alla serie 100 vedute di luoghi celebri di Edo), dove l’acquazzone è reso rigando di nero la stampa, come già accade in Pioggia di primavera a Tsuchiyama (1833) e in Pioggia di sera a Karasaki (1834), a differenza di Pioggia sferzante a Shōno (1833), dove la precipitazione è una sbavatura del colore degli alti pini curvati dal vento. Neve: Taira Kiyomori vede comparire fantasmi (1844), un trittico dove le montagne innevate prendono la forma di teschi, i rami spogli sono scheletri e le file di alberelli paiono colonne vertebrali torte da una brutta artrosi.
Quest’opera in particolare — il cui protagonista è un eroe classico del 12esimo secolo — può essere letta come emblematica di una cultura dove tra il reale e il sovrannaturale, tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti non sussistono cesure nette, dove il confine è sfumato. «Gli spiriti circolano tra noi per compiere missioni misteriose, per portare a termine lavori rimasti incompiuti, per confermare la fedeltà ai ricordi al di là della tomba», scrive il citato Focillon in una pagina di Saggio sul genio giapponese (1918). Gli spiriti sono ovunque in Giappone, anche nei quadri, ma solo nei grandi quadri: «In qualsiasi dipinto di qualità davvero eccelsa dev’esserci uno spirito», leggiamo in (un racconto trascritto da quel cercatore di perle nipponiche che è) Lafcadio Hearn, che aggiunge: «Sono molte le storie che dimostrano come i dipinti davvero grandi abbiano un’anima» (Storia di Kwashin Koji, 1901, pubblicato nella raccolta Ombre giapponesi, 1992).
Taira Kiyomori vede comparire fantasmi non è un quadro spaventoso né tenebroso nonostante le presenze paranormali. Nella cultura giapponese, i fantasmi e i mostri non per forza sono cattivi o malintenzionati. Certe presenze, certe ombre, osserva Focillon, «irraggiano sui viventi più verità benevole di quanto non li incatenino con la paura della loro malvagità». Tra il terribile e il comico sussiste, ancora col pensatore francese, «una sfumatura di humour rispettoso, di cui è difficile cogliere esattamente il tono». Si spiega così l’ironia che pervade del trittico, che non a caso troviamo in una sezione della mostra intitolata “Parodie e umorismo”.
Gli anni Trenta sono quelli della progressiva consacrazione di Hiroshige. Nel secondo lustro del decennio, mentre l’astro pubblico di Hokusai va a offuscarsi, le azioni di Hiroshige sono in forte ascesa. Importanti committenze si avvicendano e il livello delle commissioni è sempre ineccepibile. Samurai e geishe, pesci e fiori, piovute e nevicate: Hiroshige è versatile almeno quant’e evidente che la sua vera partita si gioca sull’arena che vede ancora eccellere, checché ne dica il mercato, Hokusai: il paesaggio. La lezione di quel matto d’un popolano è flagrante nell’opera del mago degli agenti atmosferici. Sbaglia però chi riduce Hiroshige a mero epigono e perfezionatore di Hokusai. Con la raggiunta maturità artistica, egli prende il largo di una concezione del paesaggio tutta sua, pur restando nelle carreggiate dell’ukiyoe. Nel merito indugeremo nei prossimi paragrafi.
Il successo gli arride ma la vita non risparmia questo pittore che preadolescente era rimasto orfano di padre e di madre. 1839: muore la moglie. 1843: l’amato figlio. Come Hokusai, Hiroshige si risposa e vede la propria casa distrutta da un incendio causato (si suppone) da un terremoto. È il 1855 e due anni dopo, il 12 ottobre, se lo porta via il colera. Al capezzale di Hiroshige c’è Utagawa Kunisada, pittore col quale in passato ha dipinto a due pennelli e al quale adesso spetta il compito di realizzare lo shinie, un «ritratto commemorativo» che è anche un seibo, un «dono d’addio». Kunisada ritrae Hiroshige nel pieno delle forze, sguardo penetrante, seduto alla maniera di Buddha, con indosso un elegante kimono e con tanto di rosario in mano, quale autorevolissimo ambasciatore artistico del Sol Levante.
Sul dipinto Kunisada trascrive la «poesia d’addio» del venerando amico: «Parto per un viaggio / lasciando il mio pennello lungo la strada d’Oriente / per visitare i luoghi celebri della Terra d’Occidente». L’Occidente cui il jisei allude è il Paradiso della Terra Pura, il paradiso dei buddisti, ma l’Occidente che sta realmente aspettando Hiroshige è quello degli impressionisti. In pole position artisti dell’epoca, Hiroshige è «Mister Ukiyoe», l’artista simbolo di una ricerca formale in forte sintonia con quella degli artisti europei dei decenni successivi.
Nel 1883 — a distanza di 26 anni dalla morte di Horoshige, in occasione di una mostra composta da oltre trecento stampe di Utamaro e Hiroshige, organizzata dal mercante Sigfried Bing a Parigi, presso la Galerie Durand-Ruel — Camille Pisarro, impressionista infatuato del Giappone, dichiara: «Hiroshige è un impressionista meraviglioso».

Tra gli ululati del maestrale
È una vera “febbre gialla” quella che infiamma Parigi negli anni Ottanta dell’Ottocento. Il Giappone è così à la page che non v’è strada della capitale dove manchi una boutique di “giapponerie” né boudoir che non ne sia stracarico. «È più che un invasione, è una decentralizzazione del gusto», afferma il filocinese Guy de Maupassant in Cina e Giappone, articolo gustosamente ricco di sagaci frecciate e sdegnose notazioni di costume, tipo: «L’oggettino giapponese ha assunto una tale importanza, ci arriva in tali quantità, che ha ucciso l’oggettino francese» (“Le Gaulois”, 3 dicembre 1880).
Vincent van Gogh è tutto fuorché immune alla seduzione del Giappone, nello specifico: il Giappone pittorico. È bella grossa la sbandata che si prende per le “vedute fluttuanti”. Lasciato alle spalle il deforme verismo chiaroscurale dei Mangiatori di patate (1885), esposto all’onda elettrizzante del colore, Van Gogh guarda con ammirazione a Hokusai e Hiroshige e si rimbocca le maniche per interiorizzarne la lezione. Dal 1886 in avanti acquista tutte le stampe giapponesi che può, i cosiddetti crêpons. Nel 1887 mette in mostra, al Café du Tambourin dell’amica Agostina Segatori, la sua collezione di crêpons. Crêpons compaiono sullo sfondo del Ritratto di père Tanguy, sfornato l’autunno dell’anno successivo.
Il settembre 1888 è il mese vertice della cotta nipponica di Vincent. L’8 settembre, in una lettera al fratello Theo, l’apprendista stregone indugia sull’effetto emozionale che Hokusai sortisce attraverso un uso preciso del colore e del disegno. Il 14 del mese scrive alla sorella Willemien che i crêpons rappresentano «la via più pratica per cercare di capire la direzione che sta prendendo l’arte odierna». La direzione dell’arte odierna, volendo essere rapidi: coloratezza e luminosità. Nella stessa lettera, da Arles: «Sono in Giappone qui» (corsivo suo). Vincent si vive la Provenza come quella che dai dipinti ha imparato essere la campagna giapponese e si sente così in Giappone ad Arles da non sentire nemmeno la mancanza dei suoi amati crêpons. Il giorno 26, sempre per lettera, Vincent svela a Theo che i crêpons che Sigfried Bing vende ai parigini a 5 soldi li trova mirabili «per le stesse ragioni dei quadri di Rubens e Veronese».
Qualche giorno prima, il 18 settembre, scriveva a Theo: «Se avessimo meno maestrale, sarebbe realmente bello e adatto all’arte come in Giappone». «Come in Giappone»: l’arte nipponica rappresenta quella quiete, quella conciliazione con la natura, quel sereno che furono sempre preclusi a Van Gogh, pittore di volti che sono paesaggi terremotati e di paesaggi che sono volti sconvolti dal maestrale, il vento nordoccidentale che simboleggia il soffio della follia. «Se avessimo meno maestrale»: se il maestrale non gli avesse ululato nel sangue, è probabile che Van Gogh non sarebbe ai nostri occhi Van Gogh, ma soltanto uno dei tanti nomi poco o niente immaginifici sparpagliati nella storia dell’arte, uno dei tanti Monticelli sommersi dall’onda impetuosa e indifferente del tempo.
Tra il 1886 e il 1888 Van Gogh rifà due stampe di Hiroshige (entrambe della serie 100 vedute di luoghi celebri di Edo): il citato Ōhashi. Acquazzone ad Atake (1857) e Kameido. Giardino dei susini (1857), che rinomina rispettivamente Ponte sotto la pioggia e Susino fiorito. Non ci risultano espliciti “remake” di Hokusai, per quanto non sia difficile scorgere l’impronta della Grande onda nel moto ondoso della Notte stellata (1889), dove peraltro Vincent prende il cosiddetto “blu di Hiroshige” e lo incendia al contatto col giallo limone delle sue stelle spellate.
Apro parentesi. Quando si parla di “blu di Hiroshige” in realtà si parla del blu di Prussia, pigmento scoperto per caso nel 1720 da un farmacista di Berlino, pigmento che Hiroshige ha preso direttamente dal pennello di Hokusai. La definizione “blu di Hiroshige” è stata coniata per l’uso deciso e caratterizzato che il pittore ha fatto di questo blu scuro, facendone il colore della profondità atmosferica e marina, ma non solo: lungi dal riservarlo a cieli e acque, lo ha usato come il prezzemolo, colorandovi indumenti e ali di pennuto, massi e musi, bulbi oculari e zoccoli equini. Chiudo parentesi.
Perché Van Gogh preferisce copiare Hiroshige invece di Hokusai? O meglio: perché copia Hiroshige sebbene ami di più Hokusai? Io lo so perché Vincent m’è apparso in sogno e me l’ha svelato. Vincent copia Hiroshige perché copiare Hokusai eccede le sue forze emotive. Lo sfibra. Hiroshige educa Vincent, lo educa al colore e al tratto, ed educandolo lo calma. Di sicuro non è meno illuminante la lezione che Hokusai ha da impartirgli, ma con lui c’è un problema. Il problema è che Hokusai lo frastorna e lo turba, lo turba intimamente, alza la temperatura della sua febbre pittorica, gli fa battere il cuore, pulsare le tempie, tremare la mano. E non che non ci provi a rifare qualche veduta di Hokusai. Un ponticello qui, un ciliegio lì. Ma qualcosa va storto. Inevitabilmente. Quegli scorci gli scoppiano tra le dita.
Quando parla di «levità giapponese», Van Gogh pensa alle bonacce di Hiroshige, non ai maremoti di Hokusai, questo è poco ma è sicuro. L’8 settembre 1888 scrive a Theo: «Quando Paul Mantz vide all’esposizione agli Champs-Elysées, che anche noi abbiamo visitato, lo schizzo violento ed esaltato di Delacroix La barca del Cristo, se ne allontanò gridando nel suo articolo: “Non sapevo che si potesse essere così terrificanti con del blu e del verde”. Hokusai ti fa lanciare lo stesso grido, ma mediante le sue linee, il suo disegno, come quando nella tua lettera tu dici a te stesso: “Quelle onde sono artigli, la nave vi è imprigionata, lo si sente”».
Se le onde di Hiroshige sono docili e belle, belle come iris o climatis, le onde di Hokusai sono feroci, tremende. Se gli acquazzoni e i susini di Hiroshige fanno venire a Vincent voglia di ripeterne il tratto per assimilarne l’incanto, i flutti di Hokusai — quei flutti che si arcuano felini per assalire la barca — gli strappano urla, gli artigliano le carni. Più che il guru delle precipitazioni è allora il pazzo di Edo — portatore d’inquietudine troppo umana che serpeggia tra i segni e avvelena la cartolina — il vero fratello del pazzo di Zundert.
Hiroshige è lo specchio del Giappone lontano e vicino che Van Gogh ha scoperto ad Arles, lo specchio dorato di un ideale sud dell’anima. Hokusai è uno specchio aberrato dove il difetto non si lascia cogliere a prima vista, ci vuole occhio fine e cuore ferito. Più vi si specchia, Vincent, più scorge nell’immagine qualcosa che lo riguarda in maniera pericolosa, qualcosa come le incrinature del nord da cui proviene e dove non vorrebbe tornare, il nord verso cui punta la bussola del suo sangue rotto. Se Hiroshige è una primavera odorosa, Hokusai è un’estate torrida, dipinta con piume di corvo.
Ancora al fratello, il 26 di quel settembre intriso di grazia e di Giappone: «Studiare l’arte giapponese» è un mezzo non solo per dipingere meglio, è un mezzo altresì per «diventare molto più gai e felici». Una gaiezza, una felicità, quelle giapponesi, sgorganti da una fonte che gli resta inattingibile, almeno fino in fondo, checché lui stesso voglia o si sia prefissato di credere. «La vita non è una successione di scossoni», scrive Henri Focillon a proposito dell’approccio giapponese alla vita. Il giapponese modello ambisce a una vita che, senza disperdere il proprio ardore, scorra «facile, allegra e tenera» (1918). Al contrario, la vita di Van Gogh è stata tutta «una successione di scossoni». Complicata. Dura. Tragica.
Per quanto Vincent s’adoperi, non si dimostra alla sua portata far rifluire nella propria esistenza e nella propria arte la leggiadra gaiezza del Sol Levante. Ciò che però gli riesce è prendere quella joie de vivre e trasformarla in gioia visuale, una gioia fatta di dati segnici e cromatici, una gioia che stende sul delirium tremens che scuote le fondamenta del quadro, che vi stende sopra come fosse una fasciatura policroma che vorrebbe medicamentosa. Il medicamento non sortisce però durevoli effetti terapeutici. Lo sforzo di felicità e facilità si risolve in un flop. La copertura solare s’intride di notte e si squarcia sotto le convulsioni di quella che Van Gogh chiama «la potenza tenebrosa quasi di un mattatoio».
La «potenza tenebrosa» è quella di cui gronda il Caffè di notte e di cui Vincent scrive a Theo, appena terminato il dipinto, il 10 settembre del 1888, anno del Signore vissuto esplosivamente e terminato drammaticamente. Il 23 dicembre il pittore si taglia il lobo dell’orecchio sinistro con lo stesso rasoio impugnato contro l’amico e collega Paul Gauguin, prima di ritorcere la propria furia contro di sé. L’atto definitivo è soltanto rinviato.

Paesaggismi (e umanismi) a confronto
Ogni pittore che si rispetti trasfonde nel paesaggio, con quel grado d’ineffabilità proprio dell’arte con la a maiuscola, la propria visione dell’umano. Hokusai e Hiroshige non fanno eccezione. Quelle che mettono in campo sono visioni divergenti dell’umano in relazione all’habitat. Visioni divergenti, soprattutto per quanto concerne il rapporto uomo natura, ma non contrastanti in termini poetici. Proviamo a capire per meglio vedere.
In Hokusai l’uomo, quand’è presente, è il cuore dell’opera, stampa, libro illustrato, dipinto su rotolo che sia. L’uomo a lavoro, l’uomo in viaggio, l’uomo che medita o guarda il paesaggio. Con le sue gioie e con i suoi dolori, i suoi fardelli e le sue occupazioni, l’uomo di Hokusai si staglia a ridosso del paesaggio quale elemento dialettico discontinuo. Detta altrimenti: l’uomo è separato dal paesaggio pur intrattenendo con esso una serie di scambi (musicalmente parlando) contrappuntistici.
È separato in prima battuta per via del differente trattamento pittorico. Se nella resa della natura Hokusai tende a stilizzare, nella resa della persona c’è un abbandono al dettaglio che oscilla tra il caricaturale e il verista, almeno da un punto di vista occidentale. Per via di questa differenza, che è innanzitutto una differenza di tratto, certe flessioni muscolari e connotazioni facciali entrano in dissonanza con le linee essenziali e allusive dei monti, dei pini, delle nuvole. Una dissonanza che marca una distanza e un’indifferenza: l’indifferenza della natura, nella sua sublimità, alle futili sorti del pupazzo di spirito e fango detto uomo.
Questo pupazzo Hokusai lo caratterizza con estro e gli dona un’estrema vitalità. Gli esseri umani di Hokusai sono così vividi che hanno tutta l’aria di «voler uscire dalla pagina», come afferma Hokusai stesso nella prefazione alle sue Lezioni di disegno (1812), osservando come l’abile intagliatore Ko-Idzumi — per impedire alle creature dipinte di darsela a gambe — sia costretto a recider loro i nervi e i tendini con una sgorbia a punta acuminata.
L’arte di Hokusai esprime alla perfezione quello che Focillon chiama il lato ah delle cose. Aspetto emblematico dello stile di vita giapponese, il lato ah delle cose è quella «vita nascosta» che anima gli esseri, quella «forza segreta» che palpita persino nelle stasi, nelle pause, nelle mollezze, quell’«anima indiscernibile» che è compito dell’artista far affiorare in superficie, magari localizzandola e comprimendola in un dettaglio (nella «muscolatura di un atleta dormiente», nelle «nervature di una graminacea», in «un nonnulla perduto nella luce»), al fine di restituirci un’impressione di «vita tutt’intera».
Vita nascosta, forza segreta, anima indiscernibile: formule per esprimere l’«emozione latente» propria di quel genio della suggestione che è il genio nipponico. Un genio proteso ad alludere se non a eludere invece di spiegare. Ad aprire sensorialmente invece di chiudere semanticamente. A disporre al mistero calando il mistero nel quotidiano. A portare alla luce quel brivido metamorfico che governa il creato e l’increato, quel palpito del totale nel particolare che con Focillon chiamiamo, appunto, il lato ah delle cose.
Hiroshige esprime il lato ah non peggio di Hokusai ma con un minore coefficiente di carnalità. Direi che se l’uomo di Hokusai ha tensioni e torsioni proprie del regno animale, l’uomo di Hiroshige partecipa alla scena dipinta con grazia vegetale. Vuoi stabilire un’equivalenza analoga nell’arte europea? Accosta un ritratto di Chaïm Soutine a uno di Amedeo Modigliani e mi dirai tu chi corrisponda a chi.
Abbiamo visto come Van Gogh faccia sue le parole di Theo per definire «artiglio» l’onda di Hokusai. Definirei «una selva di artigli» un’altra delle 36 vedute del monte Fuji: Kajikazawa nella provincia di Kai. Al centro della silografia c’è un pescatore in cima a uno scoglio. Il mare è agitato e il pescatore tira la rete. La curva uncinante dell’onda schiumosa ritorna nella curva dello scoglio e nella curva del corpo del pescatore. Lo scoglio è di un verde che va sul blu e che, mimetizzato con l’acqua, appare quale concrezione ramarresca dell’onda stessa. Il pescatore è un artiglio di carne su un artiglio di pietra tra artigli marini. La sua non è una pesca scacciapensieri, da dì di festa, al contrario è una lotta per vivere. Sullo sfondo di questo contorcimento plastico si staglia serafico il monte Fuji. Tratto e colore essenziali, minimali: un addensamento di Prussia sulla vetta tronca e una linea di contorno la cui diagonale è ripresa dalle linee della rete da pesca.
Invano cercheremo contrasti del genere nei paesaggi di Hiroshige. Se c’è lotta, essa non è una lotta dell’uomo contro gli elementi, è semmai una lotta tra gli elementi, è una lotta elementale, una lotta di bellezza, col titolo di una sua serie del 1858: «lotta di bellezza tra montagne e mare».
La diversità tendenziale tra i due concittadini nel dialogo uomo ambiente attiene non solo al diverso trattamento carnale delle presenze umane (animale vs vegetale) ma anche alla posizione dell’uomo nel paesaggio (separazione vs comunione). Mi spiego: diversamente da quanto vediamo in Hokusai, l’uomo di Hiroshige intrattiene con l’ambiente naturale o urbano che lo accoglie un rapporto di comunione, per non dire di compenetrazione: n’è parte integrata e integrante, elemento tra gli elementi della figurazione.
Se confrontiamo serie di viaggio come 69 stazioni di posta del Kisokaidō (1835-38) e 53 stazioni di posta del Tōkaido (1841-44) con quell’ideale capolinea che è 100 vedute dei luoghi celebri di Edo (1858), notiamo come gli esponenti dei regni della natura divengano progressivamente interscambiabili, senza che all’umano venga riservato alcun particolare privilegio. Non fa differenza che si tratti di una tartaruga, del ramo di un susino, di una nobildonna dipinta di spalle: Hiroshige apre una finestra sul paesaggio e noi, potendo, sposteremmo la bestiola o il vegetale o la graziosa nuca femminile come si fa con una tenda, per godere della piena visuale dell’accogliente scenario. L’uomo delle 100 vedute è, stringi stringi, un figurante grafico e un espediente prospettico. Talvolta efflorescenza nel panorama. Talvolta quinta ravvicinata di una ribalta naturale. Talvolta paravento sul limitare di un delizioso mirador. Talvolta niente di più che un parametro dimensionale per rendere una dismisura panoramica.
Eloquente, in tal senso, è una veduta dell’agosto 1856: Il traghetto di Haneda e il santuario di Benten. In primo piano ci sono le braccia e le gambe pelose del traghettatore, il resto del cui corpo sparisce nel fuoricampo di sinistra. La costruzione dell’immagine riserva al lavorante lo stesso ruolo che, in altre vedute della serie, è ricoperto dai tronchi del deposito di un falegname, dalla mezza ruota di una vettura, dalla semiluna di un bersaglio di cuoio per il tiro con l’arco, dalle travi di un ponte, dal pendio di una collina, dal tronco e dai fiori dell’albero di mimosa, dal tronco e dal fogliame piangente del salice, da un’aquila in picchiata, da una gru della Manciuria, da un colonnato di gambe cavalline, dal fumo di una fornace che attraversa l’immagine come fosse un taglio di Fontana.
Una vera e propria cosificazione dell’umano — quella attuata da questa silografia in particolare — che non sfugge all’intuizione di un giappofilo di gran classe quale Henri de Toulouse-Lautrec. Negli anni in cui la “febbre gialla” infiamma Parigi, il piccolo grande Lautrec riprende la composizione del Traghetto in un manifesto litografico del 1895, La passegère du 54. Promenade en yacht, dov’è curioso quanto significativo constatare come gli arti del traghettatore siano stati trasformati nelle assi di legno di una sedia sdraio.
Il formato delle 100 vedute è il verticale, quello a Hiroshige più congeniale per lavorarsi il fuorivista e il fuoricampo, il close-up e la profondità di campo. Non sto usando il foto-gergo a casaccio. Sono numerosi gli interpreti che rilevano in Hiroshige «una tecnica che richiama quella fotografica», come scrive la curatrice della mostra bolognese Rossella Menegazzo in un testo del 2009, Il vedutismo di Hiroshige nella prima fotografia giapponese, dove peraltro la studiosa esclude che il paesaggista «possa aver avuto alcun contatto con il nuovo mezzo, che giunse in Giappone a metà dell’Ottocento e diede i suoi primi risultati solo nel 1857». Un’affermazione, quest’ultima, della quale non sarei così convinto, semplicemente perché la serie che corona in Hiroshige la dialettica tra primo piano e campo lungo, quando non lunghissimo, è proprio quest’opus magnum cui lavorò dal 1856 all’ottobre 1858, quando la morte pose fine ai suoi sforzi.
Dubito pertanto che, nell’ultimo biennio di vita, un maniaco di immagini prospettiche del calibro del Hiroshige — sulla cresta dell’onda e alle prese con un’opera sintesi e apoteosi dove chiama a raccolta il suo repertorio e il suo armamentario — possa aver ignorato una novità così sensazionale, la rivoluzione tecnica che si sarebbe abbattuta sulle arti figurative come uno tsunami e le avrebbe fertilizzate come il limo del fiume Shinano.

La verifica del cerchio
Il cerchio è figura sacra del buddismo zen e il cerchio per antonomasia è l’ensō, tracciato a mano libera con un pennello intinto nell’inchiostro. L’ensō è la visualizzazione del vuoto cosmico e il simbolo dell’illuminazione (satori), il lampo intuitivo che la vita è un flusso onirico senza inizio né fine, un passaggio dal nulla al nulla. Per numerosi artisti e monaci è prassi quotidiana disegnarne uno al giorno in chiave di diario spirituale, nel verso del perfezionamento mentale e della liberazione dello spirito creativo. Quando chi lo traccia non vuole interrompere il flusso biunivoco tra dentro e fuori, l’ensō rimane aperto.
Tra le circolarità naturali, quella più luminosa e illuminante è il plenilunio, che intrattiene con l’ensō un vincolo d’identificazione figurale. La luna piena è divina anche quando si riflette nell’acqua. Quanti haiku sono stati dedicati alla «luna d’acqua» nonché a quel cerchio nel cerchio che è «luna nel secchio», tremule icone dell’illusorietà di un’esistenza la cui unica realtà è l’impermanenza (mu).
Va da sé che per un artista giapponese, per uno che non ignori o rinneghi la tradizione, piazzare una forma circolare nel cuore dell’immagine non sia un fatto privo di implicazioni simboliche, religiose, esistenziali.
Anche a riguardo Hokusai e Hiroshige sono figli della propria cultura. In mostra a Bologna ci sono un paio di silografie sulle quali si sarebbe potuto creare uno spazio dialogico ad hoc, tipo la sala riservata ai rispettivi mari agitati. Mi riferisco all’opera di Hokusai Fujimigahara nella provincia di Owari (1930-31, da 36 vedute del monte Fuji) e a quella di Hiroshige Il pino della luna sulla collina di Uno (agosto 1857, da 100 vedute dei luoghi celebri di Edo).
Al centro della stampa di Hokusai c’è una botte in costruzione, ancora senza testa né fondo. Sullo sfondo, di là dell’orlo vegetale dell’orizzonte, incorniciato dal cilindro della botte, c’è il cono del Monte Fuji, il più archetipico dei soggetti giapponesi. Dentro la botte c’è Fujimigahara, anziano bottaio immerso nel lavoro come il nocciolo dentro il frutto, con metafora rilkiana. L’energico vecchio dà le spalle alla veduta, eterea e sgombra d’uomo, che contempliamo oltre di lui. La fatica del bottaio si frappone, come un diaframma, tra noi e il vulcano. Frutto circolare del sudore della sua fronte, il cerchio della botte si fa obiettivo in senso fotografico, nella misura in cui inquadra, anzi accerchia, una porzione di mondo.
È una visione della natura, quella di Hokusai, congiunta a uno sguardo riflessivo sulla condizione umana, uno sguardo sempre sensibile alle esistenze della gente comune, piccoli artigiani, agricoltori, pescatori che siano. In un’altra stampa dello stesso ciclo, Ruota idraulica a Onden, c’è un semicerchio anch’esso frutto di una tecnica che dialoga col triangolo smussato del vulcano sullo sfondo: il semicerchio di una ruota idraulica, che se ne sta decentrato in primo piano e affiancato da una manciata di laboriose figure umane. Quest’attenzione per il popolo — per «le opere e i giorni» nel senso del poema esiodeo — è eccezionale nell’arte del periodo, va ribadito, un’arte tarata sui gusti delle élite, quelle aristocratiche e quelle borghesi in ascesa, e focalizzata sulla vita gaudente nelle città, sulle celebrità teatrali, sulle geishe e sui samurai.
Veniamo al “pino della luna” di Hiroshige. Una vecchia conoscenza, questo pino: il pittore aveva già dipinto lo stesso identico albero due anni prima all’interno dello stesso ciclo, nella stampa Il padiglione Kiyomizu e lo stagno (aprile 1856). Perché questo nome bizzarro, “pino della luna”? L’epiteto viene dal cerchio che il ramo disegna ed è normale in Giappone che gli alberi vengano denominati in base a quel che la loro conformazione evoca. Soltanto nelle 100 vedute c’imbattiamo in un “pino del successo” (probabilmente per la rigogliosità del suo fogliame ascendente) nonché in un “pino per appendere l’armatura” e in uno “per appendere il mantello da monaco” (dove il perché degli appellativi è intuitivo).
Come la botte di Hokusai, il ramo di Hiroshige svolge una funzione di obiettivo. Un obiettivo che stavolta è opera della natura. Il cerchio arboreo in primo piano è un mirino senza lente che incornicia i bassi casamenti e la torre di una porzione di quartiere dove oggi ha sede l’università di Tokyo, mentre a latere, fuori dal perimetro lunare, c’è un tempio buddista. A essere contornate dal ramo sono dunque forme architettoniche dello stesso grigio del terreno su cui si ergono, volumi di geometria applicata incastonati tra mare e cielo, contributi degradabili e manutenendi del sapiens a uno scenario che gli preesiste.
Non ci sono uomini né donne in questo scorcio. Nell’ultimo Hiroshige l’essere umano, inteso come corpo, è presenza rara, al limite dell’esornativo. Quando come stavolta è assente, non si pensi sia sgattaiolato via con la coda tra le gambe. A rimanere, in rappresentanza, ci sono le opere del suo ingegno. Come dire: l’uomo è stato armoniosamente assorbito da vedute dov’è contemplato il suo zampino. Assorbito come la terra assorbe quel che genera, dal momento che l’uomo, scava scava, non è che un frutto della natura.
L’antitesi uomo natura, che permane baricentrica in Hokusai, nell’Hiroshige finale perviene a una sintesi: la sintesi del paesaggio umanizzato.

Per chiudere (si fa per dire) il cerchio
Caro lettore, siamo giunti al termine di questo piccolo viaggio attraverso due grandi esponenti di un’arte, quella giapponese, dove si sposano in maniera originale due grandi tradizioni, la cinese e l’indiana, uno sposalizio inedito e originalissimo dove essere e divenire si fondono in un tutt’uno. Non restarci male se termino questo scritto con una richiesta inconsueta. Perlomeno da parte di uno scrittore occidentale a un lettore, presumo, occidentale. Sperando che le mie parole ti abbiano suscitato qualche diletto e qualche accensione, devo chiederti di farle scorrere via come acqua corrente. Hai bevuto, se avevi sete. Adesso espelli, depurati. Io stesso tornerò a vedere la mostra dimentico di quel che ho scritto. Ci proverò.
Ignoro a quale religione tu appartenga. Quanto a me, non faccio mica il misterioso: io sono un politeista che crede in Confucio, Eraclito, Eschilo, Cristo, Marco Aurelio. Credo in Oshima e Araki per le ragioni per cui credo in Bataille e Genet. Credo in Van Gogh che mi ha insegnato a credere in Hokusai. Credo nel cinese Hong Zicheng, misterioso autore di un bellissimo testo sincretico del 17esimo secolo, Aforismi sulla radice degli ortaggi. L’elenco è sconfinato, non so nemmeno io tutti coloro in cui credo, e ce ne sono anche di vivi. Ma qualunque sia il tuo credo, ti rifrango un insegnamento zen che ho fatto mio: disconosci i maestri, con i loro ammaestramenti, e cerca la verità nell’unico posto dove puoi davvero trovarla: dentro di te.
Il fatto è che le cose non sono mai esattamente come ce le hanno raccontate, a prescindere dal pulpito. Men che meno le opere d’arte, la cui natura è, per virtù di linguaggio, ambigua. Le cose non corrispondono mai a riflessioni che tuttalpiù ci dicono qualcosa del “riflettore”. Concedi all’opera l’occasione di dirti dal vivo qualcosa di diverso da quel che credi di sapere di lei, tanto più se proviene da un luogo lontano nello spazio e nel tempo. Prendi esempio dall’ensō: il cerchio può restare aperto, non va quadrato per forza. Affidati all’istinto: l’armamentario critico, se ne possiedi uno, potrai recuperarlo in un secondo tempo. Esponiti all’epifania. Swinga o tangheggia con l’immagine. Vedere è danzare.
Mi congedo con un jisei che viene dal remoto e prossimo anno 1338. La poesia del commiato del patriarca zen Daitō Kokushi. Una poesia redatta in punto di morte ma senza alcun tremolio della mano malata: «Ho falciato buddha e maestri / mantenendo la spada affilata / e adesso che la ruota si muove / il Vuoto mi fissa a denti serrati».
