Protezione e innovazione alimentare al ‘Centro Lerici’ di Cesena
Intitolato alla memoria del prof. Carlo Raffaele Lerici, docente dell’Università di Bologna, il Centro si muove nel solco della sua intuizione, ovvero che le produzioni alimentari devono essere considerate come un elemento cruciale di miglioramento della qualità della vita, da intendersi nel suo significato sociale più esteso. «Il nostro intento – ha confermato il suo presidente prof. Marco Dalla Rosa – è la valorizzazione e la salvaguardia dei prodotti tipici, ma al tempo stesso la promozione dell’innovazione alimentare e della sostenibilità ambientale. Questi elementi non devono essere considerati in contrapposizione, con la consapevolezza che non si può continuare a conservare lo status quo esistente».
Sulle iniziative e sulle possibili tematiche che potranno essere sviluppate nell’ambito delle attività del Centro “C.R. Lerici” di Cesena abbiamo avuto l’opportunità di conversare con il suo presidente. Il prof. Marco Dalla Rosa ha ritenuto importante sottolineare prima di tutto che, forte della collaborazione con il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-alimentari (Distal) e con il Campus di Cesena, nella sua attuale configurazione, il Centro rappresenta la versione 2.0 di un’iniziativa precedente, nata nei primi anni del 2000, grazie ad una brillante illuminazione del senatore Leonardo Melandri.
«Il Centro – spiega il prof. Dalla Rosa – vuole favorire la diffusione di una maggiore conoscenza e l’apertura di un dibattito nella cittadinanza su temi molto sentiti, anche in funzione della situazione nazionale legata alla qualità dei prodotti territoriali, che hanno un valore enorme dal punto di vista della produzione locale e del contesto produttivo locale agroalimentare. Potrà essere perciò di aiuto nel fornire una visione di prospettiva più ampia dei contesti europei e sovranazionali, soprattutto in funzione delle direttive e dei principi che hanno regolato la promulgazione di specifiche norme (come ad esempio lo European Green Deal), molto discusse e talvolta contestate da parte di alcuni ambienti, sia politici sia scientifici».

Cos’è che si contesta in particolare?
«Si contesta il fatto che non siano tenute in debito conto le peculiarità delle realtà del Mediterraneo, e quelle delle connesse aree vocate. Alcune norme o linee di indirizzo vorrebbero preservare il mantenimento della biodiversità, e quindi comporterebbero di lasciare una data percentuale (tra il 20% e il 30%) di terreni non coltivati con monocoltura. Ma questa istanza finisce per scontrarsi con le esigenze produttive di determinate aree, che sono invece da sempre destinate alla monocultura, come avviene necessariamente in certe aree collinari e viticole di realtà di grande pregio. A questo proposito, è però bene non dimenticare che il territorio italiano è prettamente montuoso, e che quindi le aree di biodiversità esistono già, anche se non sempre focalizzate in un luogo definito. Quindi penso che sia inutile prendersela con l’Europa».
Se ho inteso correttamente, al di là della tendenza futura – e per certi versi inevitabile – di alcuni prodotti che saranno sempre più richiesti dal mercato, il Centro vuole dunque proporsi come uno spazio per mettere in evidenza maggiormente, a livello locale, nazionale ed europeo, anche il valore della qualità dei prodotti, non necessariamente in contrapposizione.
«Non esiste una contrapposizione, ne sono convinto e lo affermo in tutte le occasioni in cui ne ho l’opportunità. La visione della necessità di trovare delle soluzioni alternative e meno impattanti a livello mondiale per quello che riguarda le proteine, i prodotti, il minor uso del suolo e dell’energia, ecc., non si contrappone a quella della valorizzazione e della salvaguardia dei nostri prodotti tipici, che hanno margini per un’ulteriore espansione. Quella italiana è in sostanza una piccola realtà, abbiamo circa 400 prodotti a livello nazionale e 45/50 a livello regionale, che si rivolgono però ad una nicchia di mercato. È chiaro che emergeranno sempre più delle differenziazioni in funzione delle capacità di acquisto, delle logistiche e della disponibilità della distribuzione».
Quali sono le barriere culturali o scientifiche da superare per avvicinarsi ad un mondo in cui questi due ambiti possano coesistere?
«Sicuramente la protezione dell’esistente. Qualcosa dovremo cambiare per necessità, qualcuno dovrà cambiare, e la protezione dell’esistente rappresenta un freno alla possibile evoluzione verso scenari che siano più sostenibili. Ci troviamo indiscutibilmente di fronte a cambiamenti epocali. Da quanto ricordo il 95% degli scienziati si è dichiarato d’accordo sul fatto che il cambiamento climatico nell’ultimo secolo sia dovuto ad un problema antropico, cioè sia collegato al fattore umano. Questa è secondo me la situazione reale, e perciò non possiamo continuare a produrre proteggendo le modalità esistenti ad occhi chiusi. E’chiaro che alcune cose dovranno essere modificate».
Per esempio, molti terreni oggi sono utilizzati per la produzione di mangime. Cosa ne pensa?
«Io sono d’accordissimo sull’uso dei ruminanti, là dove possono essere realmente utili, se non addirittura indispensabili. Ritengo abbastanza inutile continuare a considerare come se fosse inamovibile un’industria mangimistica basata su grandissime estensioni di colture, che potrebbero essere sfruttate in miglior modo per l’utilizzo umano, per l’alimentazione umana. Attualmente invece la maggior parte di queste estensioni serve a produrre mangimi. Va benissimo che ci siano i ruminanti nelle zone in cui devono presidiare le montagne, le colline e le aree marginali, generando lavoro e anche numerosi prodotti secondari, tra cui ad esempio lo stallatico. Secondo la visione della Fao, i terreni potrebbero essere utilizzati per produrre anche altre cose. Sarebbe cioè inutile occupare gran parte della terra coltivabile per creare alimentazione animale, con una resa bassa. I due approcci non sono in antitesi tra loro, ma devono essere valutati scientificamente ed economicamente, con la consapevolezza che non si può conservare lo status quo esistente».