Teatro alla Scala di Milano: Barenboim da solo sostituisce l’orchestra ma le mani non sono più quelle di un tempo

Ieri, 4 novembre, al Teatro alla Scala di Milano doveva essere il gran ritorno di Daniel Barenboim, direttore della Staatsoper di Berlino, ma nel pomeriggio un caso sospetto di positività al Covid-19 nell’orchestra ha fatto saltare e rimandare a data da definirsi la prevista integrale delle quattro Sinfonie di Brahms. Questo, però, come leggerete nella recensione su Kurvenal curata dal nostro attento critico, il prof. Giovanni Neri, presente in platea, non ha impedito al maestro argentino-israeliano di esibirsi da solo al pianoforte…

di Giovanni Neri.

Nel panorama musicale internazionale non c’è alcun musicista vivente che eguagli Barenboim quanto a completezza di repertorio, sempre a livelli eccezionali. Concerti di piano solistici e con orchestra,  partecipazione a ensembles, accompagnamento di cantanti, direzione d’orchestra sinfonica e operistica etc. Insomma se dovessimo paragonarlo a un atleta potremmo dire che è  un vero decatleta.

Daniel Barenboim

Attualmente è a capo della Staatsoper  di Berlino della quale dirige molte delle opere e concerti; è stato per 8 anni  direttore principale della Scala lasciando un ottimo ricordo. Ancor oggi, alla soglia degli 80 anni (79 questo Novembre), dimostra una energia e una duttilità impressionanti e una capacità organizzativa che ne fanno uno dei musicisti più importanti a cavallo del secolo. Di origine argentina, di confessione ebraica, fiero oppositore di Netanyahu, sostiene e dirige la East-West Divan orchestra (Divan è certamente un riferimento al ciclo goethiano), composta di strumentisti palestinesi e israeliani nell’ambito di un programma di riconciliazione e di fusione fra culture diverse che dovrebbero convivere in pace. Di lui si ricordano anche alcune affermazioni  paradossali. A chi gli chiedeva la ragione della sua vitalità rispose: “faccio come Churchill: mangio, bevo e fumo i sigari. E lo sport”. Quale sport? “Nessuno: non faccio sport! “.

A Milano in due serate alla Scala doveva dirigere le 4 sinfonie brahmsiane ma l’appuntamento è saltato per Covid  in orchestra (cominciamo benissimo…! Sarei curioso di sapere se l’untore è un No-Vax…). Al suo posto ha eseguito come solista le 3 sonate conclusive di Beethoven, ovvero le opere 109, 110 e 111. Un programma che potremmo definire classico ed estremamente impegnativo sotto il profilo musicale, nelle quali la forma-sonata è sottoposta a modifiche che preludono alle forme libere degli  ultimi quartetti.  E’ l’anello di congiunzione verso un panorama musicale meno legato a forme tradizionali e consolidate pur rimanendo, dal punto di vista tonale, perfettamente di  impostazione classica. La crisi della tonalità avrà luogo molto dopo, verso la fine dell’ ‘800.  Ma … qui il recensore si trova suo malgrado (verso un mostro sacro) a dovere fare la disamina razionale del concerto. Molto semplicemente un disastro, un’esecuzione che avrebbe portato alla bocciatura a un esame di conservatorio di uno studente di medio/basso calibro.  Senza tediare il lettore con un’analisi troppo dettagliata (ci sarebbe un’intera pagina da riempire)  l’intera esecuzione delle sonate è stata massacrata da tempi drammaticamente lenti (il primo tempo delle 109 avrebbe potuto addormentare un neonato ribelle ma la cosa vale per tutti i tempi di tutte le sonate)  probabilmente dovuti a insicurezza (peraltro confermata da molteplici errori) che hanno snaturato il significato musicale delle composizioni. La vera, drammatica ciliegina sulla torta è stato il finale della fuga dell’op. 110, il grandioso maestoso finale che corona la sonata. Qui probabilmente Barenboim ha avuto un colossale vuoto di memoria di fatto tagliando (con molto mestiere, va detto, senza però risolvere il problema) l’intera ultima pagina con un simulacro stonato e accorciato della partitura.

Teatro la Scala di Milano

All’età non si sfugge e qui non siamo in presenza di una giornata no (capita a tutti) ma semplicemente agli effetti nefasti della vecchiaia. Durante l’esecuzione (se così si può chiamare) mi è costantemente ritornata in mente la biografia della contessa di Castiglione di Benedetta Craveri, una bellezza spettacolosa nel fiore degli anni (anche se con canoni forse differenti da quelli moderni) decaduta prematuramente alla soglia dei 40 anni.  Purtroppo la tentazione di prolungare una carriera luminosa ma al tramonto è una tentazione cui molti esecutori non sanno resistere (si veda il caso di Pollini e di converso la saggezza di Brendel) lasciando non la memoria delle grandi esecuzioni ma quella di una performance neppure sufficiente. La tentazione è comprensibile ma la ragione dovrebbe controllare queste pulsioni: le mani non sono più quelle di un tempo (e un po’ anche la testa) e lo dico da pianista che assiste al proprio degrado.

Barenboim ha ancora molte frecce al suo arco e in particolare la direzione d’orchestra che non richiede la meccanica delle dita. Ovviamente il pianista argentino giocava in casa e complice un pubblico di competenza infima ha ottenuto un grande successo. Ma lui stesso consapevole del massacro ha evitato di eseguire bis. Un segnale che la testa non è completamente andata.

Leggi anche il blog Kurvenal dell’autore Giovanni Neri

giovanni.neri@unibo.it

P.S.  Ignoranza o malafede. Una nota e autorevole agenzia stampa italiana riporta in un breve comunicato la notizia del concerto di Barenboim alla Scala. Fra le amenità scrive l’estensore.. il maestro ha offerto il meglio di sé regalando un’esecuzione con la profondità dei suoi 78 anni e la forza di un ventenne”.  Ora io sarei curioso di riascoltare la registrazione del “concerto” (se esiste) insieme all’estensore del pezzullo che o non è stato presente (e quindi ha scritto neanche per sentito dire ma per “tradizione”) oppure soffre allo stesso tempo di sordità e ignoranza musicale (G.N.)

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