Trent’anni senza Luigi Ghirri: «Le sue foto erano carezze fatte al mondo»
di Silvia Rizzetto.
Una nebbia che confonde lo sguardo, che scontorna, che gioca con la vista dell’osservatore. Una passeggiata lungo il Po o in riviera romagnola, incontrando architetture che sembrano prendere vita. Scatti che – a volte intenzionalmente sovraesposti – raccontano le provincie di Reggio-Emilia, Ferrara e Rimini con case, piante, oggetti. È la realtà quotidiana secondo Luigi Ghirri, tra i fotografi più influenti degli ultimi decenni, scomparso prematuramente a Reggio-Emilia il 14 febbraio di 30 anni fa.
Un artista che in passato non è sfuggito alle critiche dei suoi colleghi più feroci, come ricorda il fotogiornalista Pasquale Spinelli, docente di fotografia del master in giornalismo dell’Università di Bologna. «Molti dicono: “Ha solo fotografato uno scivolo in spiaggia”. In realtà quella foto è come se fosse uno still life fatto in studio». L’incomprensione, spiega Spinelli, era spesso dettata dall’invidia, ma soprattutto dall’incapacità di capire le sue opere. «Ghirri aveva creato uno suo stile – sottolinea il fotogiornalista – cercava delle atmosfere. Il paesaggio intorno all’architettura era importante allo stesso modo dei palazzi. Voleva un soggetto completo». Elementi che Ghirri ben definiva nello spazio, fino a far diventare i suoi lavori molto semplici. La sua è una «fotografia adolescenziale, come fatta da un bambino», commenta Spinelli. «Lo chiamavano “il filosofo con la macchina fotografica”, perché si riusciva a capire. Le immagini entravano nel cuore delle persone».
È l’ambiente il vero protagonista delle storie di Ghirri, che si sviluppavano sulla pianura padana. L’artista amava il territorio e cercava di farlo conoscere alla gente. «L’ho visto molto emiliano, sebbene sia stato un fotografo di fama internazionale», afferma Spinelli, che si sofferma sulla celebre immagine del cancello, coperto da un velo di nebbia: «non si capisce dove vanno a finire le strutture e gli spazi, è una fotografia totalmente diversa da ciò che ci possiamo aspettare». Ghirri sapeva riprodurre genuinamente i colori della provincia e lo faceva attraverso una tecnica alquanto personale, la sovraesposizione. «Con il tempo aveva cominciato a sovraesporre le fotografie, a farle diventare un po’ chiare. Faceva una propria ricerca dell’immagine attraverso la desaturazione dei colori», racconta Spinelli. La sovraesposizione era arrivata dopo un periodo passato da fotoamatore, Ghirri infatti non era nato come artista ma come geometra. La vecchia occupazione lo aveva portato a lavorare su progetti: «Non era un uomo da singola immagine, realizzava racconti fotografici. Fotografava le cose che si trovavano, non andava nei luoghi con uno scopo specifico», precisa Spinelli.
C’era anche Bologna nelle opere di Ghirri, una città riscoperta in via Fondazza, con le brocche e i vasi di Giorgio Morandi, che riacquistavano vita e tornavano a dare un senso allo spazio, caratterizzato da fondi bianchi o ingialliti, piatti, che senza colore non avrebbero raccontato nulla. Ma a Bologna suonava anche una musica, quella dolce di Lucio Dalla, l’amico cantautore che scelse gli scatti di Ghirri per le copertine dei suoi dischi. Infine, sotto le due torri si inscenavano gli incontri con il professore e scrittore Gianni Celati, provinciale come lui, la cui amicizia si ritrovava nei continui rimandi alle loro opere. Lo stesso Celati aveva definito che i lavori di Ghirri erano «carezze fatte al mondo».

Molti i viaggi di Ghirri: sulle Alpi, nella magica Puglia e nelle città del Nord, che come per incanto apparivano deserte. Ma il richiamo della provincia, della campagna verde e umida, delle luminose estati al mare, era fortissimo: era questo il microcosmo più amato da Ghirri. Anche gli esseri umani ne facevano parte, ma rimanevano in disparte. Se si osservano le fotografie di Ghirri, si trova un paesaggio che incontrava strutture architettoniche, disposte su schemi lineari immaginari, che acquistavano un nuovo valore, un sentire umano. «Fotografava portoni, finestre, le strade che percorreva, gli atlanti di casa. Ci ha spiegato che bisognava imparare a guardare e fotografare cose a cui nessuno dava importanza. Diceva che fotografare le cose, anche una pagina, dava a esse la dignità»: è questa, secondo Spinelli, la lezione di Ghirri che è rimasta fino a oggi.

