Umano, natura e relazioni nella ricerca artistica di Claudia Losi
All’indomani dell’inaugurazione di ‘Stare a guardare’, progetto di arte pubblica per la crescita sostenibile del territorio e della comunità di Biella, Claudia Losi (1971), artista piacentina, ci ha concesso un’intervista per la rubrica Storie di Artisti. La sua pratica si focalizza sul rapporto essere umano-ambiente e sulle relazioni tra individuo e collettività. Le opere si distinguono per un forte potenziale narrativo ed evocativo che mira a creare inneschi, per usare le sue parole. Situata al confine tra molteplici discipline, la ricerca artistica di Claudia Losi, si caratterizza per dinamiche partecipative e relazioni comunitarie che conferiscono al lavoro una connotazione di pratica prima di tutto sociale.
La sua formazione ha avuto una doppia anima. Da un lato la laurea in lingue e letterature straniere all’Università di Bologna, dall’altro il diploma all’Accademia delle Belle Arti. Quali intersezioni tra i due percorsi?
«I punti di contatto sono stati molteplici e si sono giocati in prevalenza nelle contaminazioni tra la letteratura, soprattutto francese, e le arti visive. La parola da un lato, il visuale dall’altro sono sempre stati i miei due poli di interesse, tant’è che la mia tesi di laurea fu su Alberto Giacometti e sulla lettura che ne hanno fatto alcuni poeti francesi a lui contemporanei. Portare avanti questi due percorsi, scelta allora compatibile, è stato tanto impegnativo quanto formativo. Inoltre, a metà degli anni novanta, con Francesco Benozzo, scrittore e musicista, oggi docente di filologia e linguistica romanza presso l’Università di Bologna e Matteo Meschiari, filosofo, geografo e scrittore, ho fondato lo Studio Italiano di Geopoetica, affiliato all’Institut International de Géopoétique, nato in Francia dal poeta scozzese Kenneth White. In quegli anni ci siamo focalizzati su ricerche legate al rapporto dell’essere umano con l’ambiente e sulle relazioni tra individuo e collettività. Temi ancora poco esplorati allora in Italia nei termini per noi interessanti e che fanno ancora, in qualche modo, parte della mia ricerca artistica».
Come nasce l’attenzione per il mondo naturale?
«Ha radici antiche. Uno dei primi lavori realizzati è stato un rizocarpo geografico, un lichene che ho prima osservato, fotografato e poi riprodotto con fili in tessuto. Un progetto lungo e laborioso, anche per via del medium scelto, il ricamo, a cui ho dedicato un tempo dilatato così come dilatato è il tempo di crescita di questi organismi. Dedicare un tempo ampio ai miei lavori è una dimensione che si è ripetuta anche in modo non intenzionale. Balena Project, nato nel 2002, è durato oltre vent’anni. Sento coerenti questi tempi lunghi rispetto all’interesse per il mondo vivente che si muove su una scala temporale lenta in contrapposizione alla rapidità con cui pensiamo si debba misurare l’esperienza del mondo».

In quale medium si riconosce di più?
«Ho un modo di pensare tridimensionale e una propensione manuale, scultorea. Disegno ma non dipingo. Anche la fotografia la penso come scultura».
Quali materiali predilige nella pratica artistica?
«Uso qualunque tipo di materiale con una preferenza particolare per il tessuto. Trama e ordito: concettualmente la trovo già una metafora potente in sé».
Menzionava il Balena Project, perché proprio la balena? Di quale metafora è portatrice?
«E’ un essere vivente, un mammifero a sangue caldo, un animale con una presenza immaginifica e fisica per noi umani fuori misura, in una situazione di pericolo. La sua condizione ricorda molto quella umana, forte e fragile al tempo stesso. In generale ritrovo una certa fluidità tra animale umano e animale. Balena Project è un’ultra forma, realizzata a grandezza naturale (24 metri in tessuto, ndr) che ha viaggiato per il mondo nei luoghi d’arte, nei musei di scienze naturali, nelle strutture educative, ma anche nelle piazze, nei porti, in riva al mare, ecc. In questi vent’anni è stata ospitata in luoghi non convenzionali e ovunque ha innescato collaborazioni, strutture di relazioni, storie imprevedibili raccolte nel libro “The Whale Theory. Un immaginario animale” pubblicato nel 2021. Un innesco narrativo più che una scultura fatta bene direi».
Viviamo in un tempo in cui l’uomo è artefice e al tempo stesso vittima di minacce ambientali. L’arte può risvegliare le coscienze?
«Può anticipare scenari, offrire uno sguardo più o meno puntuale sulla realtà in cui viviamo. Non fornisce risposte, propone domande. Individua possibilità, non certezze».

Rispetto al rapporto uomo-ambiente, ha lavorato molto anche sul concetto di luogo, reale o percepito e sul linguaggio che permette di raccontare l’esperienza che si fa di un dato luogo. Può spiegarci meglio?
«Mi sono interrogata su cosa significa immaginarsi in un luogo, esserci, ritornare e su come la memoria di quel luogo si trasforma e si sedimenta anche attraverso la parola e l’esperienza. Molte di queste riflessioni sono entrate a far parte del progetto How do I Imagine Being There?, sfociato nel progetto Being There. Oltre il Giardino, produzione premiata dall’Italian Council nel 2020. Per due anni ho raccolto più di quattrocento risposte nate dalla domanda “qual è la tua idea di luogo naturale?”, lanciata tramite call collettive in centri d’arte e scienza di paesi molto diversi tra loro per caratteristiche paesaggistiche, linguistiche e culturali, da Singapore, ad Israele al nostro stesso Paese. Il risultato è stato un lavoro site-specific, ora patrimonio del Ministero della Cultura- Mic, esposto l’estate scorsa nella Rocca Roveresca di Senigallia. Un grande tessuto jacquard di diciotto metri che racchiude una molteplicità di percezioni e visioni sull’idea di luogo naturale in un’unica narrazione corale».
In un’intervista si è espressa affermando che anche il camminare è una pratica artistica. Può spiegarci meglio? «Anche la relazione con lo spazio contribuisce a creare la nostra identità umana e artistica e influenza la nostra percezione di un luogo. Hamish Fulton, artista inglese che ho conosciuto alla fine degli anni novanta e che ha rappresentato un riferimento concettuale importante per me, si è auto definito, ad esempio, un walking artist. Le sue opere erano realizzate sull’esperienza delle camminate che traduceva in una varietà di media».

La partecipazione del pubblico ritorna nella sua pratica artistica. Quale valore ritrova nelle tecniche partecipative?
«Siamo Homo Sapiens ovvero esseri sociali. Ogni personalità si forma nella relazione con l’altro, nella socialità si produce, si crea. Fin dagli anni della mia formazione ho trovato spontaneo ospitare e farmi ospitare dall’altro attraverso collaborazioni, domande o azioni comuni che potessero rispondere a interrogativi che condividiamo come esseri viventi. Il primo lavoro partecipativo risale alla fine degli anni Novanta. Allora coinvolsi tre donne serbe con storie diversissime tra loro in un lavoro di ricamo collettivo. Belgrade Project (1998), è stato, senza saperlo, il mio primo lavoro collettivo. Un’esperienza molto forte in cui ho toccato con mano cosa significa creare comunità temporanee mosse da un’azione collettiva, in questo caso la pratica artistica, che fa da innesco come è stato per la balena. L’artista diventa un passeur di relazioni ed esperienze che possono essere anche molto deboli o molto forti e creare piccoli smottamenti. La buona riuscita di questi progetti non è scontata, dipende da tante variabili che non si controllano completamente, dal mantenere la rotta e dal seguire il fluire degli eventi».

Copertina: Gesti dentro, 2019/20, ceramica bianca e smalto, Misure differenti. Gesti dentro #5,40×110×110 cm In collaborazione con Fratelli Bartoloni, Montelupo fiorentino, FI Galleria Monica De Cardenas, Milano-Zuoz-Lugano CS_ As Hands Remember, a cura di Marina Dacci (estate 2020) CS (it)_Come le mani ricordano Ph. Andrea Rossetti