Un io che si sta cercando // conversazione con Cosimo Terlizzi al margine di DEI

a cura di Vito Contento

Cosimo Terlizzi, è un artista poliedrico che si è formato a Bologna. Recensioni della sua opera si trovano sulle riviste più diverse. Terlizzi ha esplorato indifferentemente cinema, arte, performance, fotografia, ultimante perfino giardinaggio. Uno delle sue prime opere è un documentario diventato cult Aiuto orde barbare al Pratello, dove Terlizzi documenta gli sgomberi delle case occupate nel 1996 nella celebre via bolognese. Ma la sua opera si fa pian piano sempre più raffinata, sia sulla ricerca fotografica che su quella tematica. È ossessionato dal tema dell’identità, dallo studio di ritualità nuova e antica, dalla filosofia della scienza e dalla plasticità del corpo nell’immagineLo abbiamo intervistato al margine dell’uscita del suo lungometraggio Dei, prodotto da Valeria Golino e Riccardo Scamarcio. I “Dei” sono dei ragazzi baresi, al termine dell’adolescenza e all’inizio dell’età adulta, in piena precarietà economica, ma non esistenziale: ritrovano in gruppo, dentro una grande amicizia, il piacere di sentirsi vivi, pieni di amore e consapevoli del loro presente che scivola via.

Un’inquadratura del film

VC – Nelle tue opere fotografiche di video arte e perfino nei tuoi documentari diaristici, emerge sempre il tema dell’identità. Identità che si raccolgono in corpi plastici ma in trasformazione, spesso ingigantiti da strani accessori, protesi. Questi corpi si collocano, si palesano negli spazi con orgoglio. Dei è un film sulla adolescenza, sulla giovinezza come identità? Che tipo di identità è?

CT – Un io che si sta cercando. Un’identità che appare mobile, che si sposta si complica e si ritrova. Martino, il protagonista, si sposta per istinto verso altri luoghi. Avverte curiosità verso mondi sconosciuti ma che in realtà riconosce utili per ritrovare se stesso. Infondo si cerca di essere identici a se stessi e l’adolescenza, che confonde, rimette in gioco, rompe, è proprio quel momento caotico e sperimentale dove nella apparente decostruzione del sé in realtà lo si sta costruendo.

VC – Ripercorrendo la tua opera, soprattutto quella video, è consueto ritrovarci il paesaggio pugliese, sia quello urbano fuori dai centri storici (le palazzine anni ‘70 e ‘80 delle cittadine nel barese), sia l’immediata campagna che finisce nelle Murge. Quasi sempre, come in Dei la rappresentazione è estiva e incontra spesso il silenzio della “controra”, quando si calma il brulichio dei cittadini nel riposo, e il personaggio sembra agire in un universo che lo rende ancor più solo e agisce inosservato. In Dei vi è una presa di posizione fortemente simbolica sul territorio e il paesaggio, addirittura l’ulivo è assorto a merce di scambio per un futuro aleatorio, che ancora non sappiamo se ci sarà…

CT – Sono cresciuto nell’immediata periferia di Bitonto. Dove la campagna era ancora vissuta ma contaminata dalla città in arrivo. Ora lo stesso luogo è urbano.

Ero adolescente quando all’improvviso tra gli ulivi vidi apparire i “palazzi popolari”, quelli soliti posti lontano dal centro. Compresi che tutto sarebbe cambiato. In piena luce, nelle ore del riposo pomeridiano, uscivo e m’incamminavo lungo i sentieri. Un momento metafisico dove le lamiere poste a chiudere i cancelli riflettevano la luce calda mentre cani, cicale, aeri, che atterravano nel vicino aeroporto, facevano da suono continuo. Avvertivo la fatalità del cemento che copriva la terra. Ma tutto sembrava stranamente magico seppur violento. Un momento di stordimento. Mi chiedevo come potevo dar voce o dare un senso a questo dramma. Io stesso ho lasciato quella terra all’epoca tanto corrotta. Ho portato sempre dentro di me quella impossibilità che provavo nel far cambiare le cose. Ma sembra che quello umano sia un moto rettilineo e uniforme verso il disastro.

VC – Non voglio dire nulla nulla sulla trama del film, tuttavia per l’appunto, come ho già accennato una scena fra le ultime ci dice che il prezzo dello sviluppo, sia sempre troppo alto da pagare. La sensazione è che mentre si ottiene qualcosa di nuovo, anche di buono, non ci si stia accorgendo di quante altre cose si stiano perdendo, per meglio dire: estinguendo. È quanto volevi dirci col film? Che ricordarsi di “conservare”, di proteggere quanto c’è già, sia la più urgente ”innovazione”?

CT – Sì, è proprio quello che intendevo trasmettere… Attraverso il cammino esperienziale del protagonista, un ragazzo che sta superando la fase adolescenziale. Quella in cui ci si trova davanti alle prime scelte più consapevoli. Ma qui la scelta diventa metafora del cammino dell’intero genere umano. La seduzione di una certa idea di emancipazione. La città come luogo dei desideri, risultato di un processo intellettuale proteso (sembrerebbe) al distacco dalla cultura rurale. Inevitabile probabilmente. Il pensiero fisso del giovane protagonista è come distaccarsi della famiglia, nonostante sia attaccato alla terra, quel pensiero fisso è la conoscenza. L’Università, l’Ateneo il tempio come luogo di crescita intellettuale. Intorno vari olimpi, appartamenti posti in altezza.. Lì la farsa degli dèi… Dentro il protagonosta si cela il dubbio e un certo essere fatalista… alla fine il solfeggio del suo percorso di formazione lo porterà in modo violento davanti ad una verità: sì, bisogna rinunciare a qualcosa di veramente importante, e il costo è alto. Ora dopo il koan (film della durata di un ora e mezza) come reagiremo per evitare di rinunciare ad una parte di noi? La terra.

foto di scena di Matteo Leonetti dal film Dei

VC – Questa esperienza nella macchina del cinema come ti è sembrata? La vuoi ripetere? Hai sempre prodotto arte, magari agli inizi con mezzi davvero poveri ma in piena libertà, come se macchina fotografica e macchina da presa fossero una penna o un pennello. Quando si ha a che fare con un’ampia troupe, produttori, tempi di lavorazione, si può parlare ancora di arte, libera espressione?

CT – Non so se si può parlare di libera espressione in un contesto così complesso come quello di una industria… ma per fortuna aldilà dei metodi il risultato può contenere quel germe che in modo sottile si insinuerà nei nostri pensieri. Ho letto tante recensioni sul mio film. Non rimane solo un consumo di un tempo, un intrattenere, ma si manifesta una riflessione. Questo è già qualcosa.

VC – Conosco la tua opera abbastanza bene per poter sostenere che è ossessionata dalla scienza e cerchi di mettere in luce i vuoti della scienza. La scienza ti ha deluso, intendo rispetto all’intuito o alla filosofia… Ti ha deluso rispetto alla pratica? So che ti occupi in maniera abbastanza metodica delle tuo giardino di erbe officinali. Si tratta di messa in scena di un sapere? Stai facendo ricerca botanica, o forse è solo ricerca artistica? E a prescindere da queste domande, cosa ti spinge a farlo?

CT – Esiste un contatto sottile e impalpabile verso le altre cose del mondo. La scienza è uno strumento del pensiero e quindi anche della filosofia. Il metodo scientifico mi interessa molto, ma ci sono cose che vanno rispettate anche se non le conosciamo come il mistero del creato. Rimane sempre in me questa immagine che nelle scuole ci passano come rassicurante teoria sulla creazione dell’universo… la teoria del Big Bang. Una grande sfera che esplode. Ma questa sfera solitaria nel vuoto cosa ci stava a fare? La vastità dell’universo è il mio chiodo fisso. Mi rattrista moltissimo la pochezza dell’umanità nel vivere questo pianeta come se fosse scontato. Il contatto che sto vivendo con la terra ora è una forma di ringraziamento. Creare il giardino e come svelare il paradiso. Se la composizione funziona vien fuori che il paradiso è proprio questo pianeta e in questo stesso pianeta ci sono anche tutti i gironi danteschi.  Mi sono posto anche io questa domanda: si tratta di messa in scena di un sapere? Spero che sia piuttosto un dar voce a qualcosa che già esiste ed è eccezionale.

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